martedì 28 maggio 2013

Erbe che crescono di notte

La sua venuta, fatale fu per la morte nera. Di lei si canterà a lungo tra gli spiriti di chi più non è. Ma tra coloro che generazione e generazione a venire parleranno del grande miracolo, nessuno dirà mai che fu una semplice donna. Semmai, la strega ricordata sarà per il castigo che uomini di cuore e di alta moralità non esitarono a infliggere alla megera, causa di dolore e sofferenza. Parleranno del terrore e dell’angoscia che uomini semplici e di buona fede, dovettero caricarsi come fardello di origine ignota, ma certamente voluto da Dio, poiché tra loro viveva in modo incauto una figlia del demonio. E’ stato fatto secondo il volere di Dio, che con magnanimità ha concesso ai suoi figli di allontanare il calvario di dolore e di malattia portati dalla strega. Perché bisogna sempre fare la volontà dell’Onnipotente, anche quando la strega per sfuggire al suo destino si dovesse professare innocente. Nessuna donna può conoscere il segreto delle erbe e guarire una malattia. Se una donna fa questo, è impura e su di lei aleggia la spira del demonio. Si chiamava Isolina, carnagione chiara, capelli castani e grandi occhi nocciola. Non era come le altre fanciulle, che pur vestite di stracci e dal viso di cenere o fango cosparsi, riuscivano comunque con modi civettuoli ad attrarre cavalleresche e signorili attenzioni. Lei era talmente abile a mascherare la sua presenza da riuscire a sgusciare indisturbata da qualsiasi luogo, quasi come fosse, agli occhi dei più, davvero invisibile. Eppure, se qualche giovine per caso incrociava il suo sguardo, sentiva nel fondo del cuore un pulsare di felicità ed eccitazione che solo la vergogna e il contegno potevano placare. Il passato di Isolina era avvolto in una sorta di leggenda che la vedeva come un’estranea nel villaggio e di dubbie origini. Arrivò tredicenne nel paese, scortata da cavalieri che la affidarono alla vecchia signora Elsa, poiché rimasta orfana. Fu accolta dai Cavalieri Ospitalieri dell'Ordine dell'Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme che se ne presero cura come di una figlia e le insegnarono letteratura, matematica e medicina. Era diventata una esperta erbaria e curava i poveri con la conoscenza tramandatale dai Cavalieri suoi tutori. Rimase in casa di Elsa e si accudirono a vicenda e dalla vecchia, Isolina apprese ancora di più sul mondo delle erbe e sui possibili impieghi delle stesse. Spesso però Elsa le ripeteva che a Mezzapietra le persone erano diffidenti e paurose perché troppo soggiogate dalla chiesa, perciò era bene non ostentare conoscenze che per loro sarebbero state come proclamazione di legami con il lato oscuro. Non importa se le erbe di Isolina sapevano far davvero bene, non importa se anche alcuni signorotti la interpellavano di nascosto. Agli occhi di tutti era chiaro che Isolina e Elsa fossero erbarie da tenere alla larga e finché restavano a vivere nel fitto del bosco e si isolavano dal resto della comunità, nessuno vedeva e quindi nessuno parlava.  Compì diciannove anni il primo maggio e benché la ragazza fosse riconoscente a Elsa per la premura e le gentilezze usate quel giorno speciale, lei si ricordava con nostalgia di quegli anni in cui nel suo villaggio tutti si preparavano per celebrare l’importantissimo Beltane, il giorno del ‘fuoco luminoso’, proprio il giorno della sua nascita. La festa era un’occasione per ringraziare gli Dei per i loro doni e chiedere protezione per i raccolti e domandare benedizione alla Dea Madre per i bambini che sarebbero arrivati dalle unioni di quella notte di fuochi. Le Sacerdotesse si preparavano a unirsi al Dio Cernunnos e offrivano la loro anima e il loro corpo al sorgere delle nuove vite per la prosperità della comunità. Isolina ricordava i profumi di cibo e di incensi che pervadevano le strade e le case e ricordava anche gli uomini che preparavano le pire per i fuochi sacri. Le piaceva fingere di essere già una Gran Sacerdotessa. Da Acquafate proveniva Isolina, da un posto incantato, prospero e dove le donne erano tenute in gran considerazione. Un popolo distrutto dall’odio e dall’ignoranza di coloro che si ergono padroni del mondo e unici portatori di verità. Lei sapeva che lo stesso uomo che l’aveva salvata da morte certa, era anche l’uomo che comandava le spade e le torce che avevano devastato il suo villaggio. A causa del rimorso, quel Cavaliere le aveva dato una seconda occasione di vita. Egli apparteneva a un ordine che amava, ma verso il quale provava dubbi e incertezze e alcune risposte scoprì di poterle trovare nel rispetto e nella conoscenza di Madre Terra. Se i suoi capi spirituali lo avessero saputo, sarebbe morto nel peggiore dei modi. Un giorno, dopo tanti anni che finse fosse sua figlia, le disse: 
“Devi compiere il tuo destino. Quel dì la mia spada non poté colpirti perché nei tuoi occhi ho riconosciuto il segno della Madre che veglia sulle sue figlie predilette. Tu sei figlia di Colei che tutto protegge e io non sono nessuno per distruggere tanto amore”.
Così arrivò alla casa di Elsa. Tuttavia capì presto che, sebbene il Cavaliere le avesse parlato in quel modo e sebbene Elsa fosse conosciuta e ben stimata dall’Ordine, a Mezzapietra sarebbe bastata una parola errata per finire impiccata. E così, lei che aveva il dono delle visioni, che aveva un istinto formidabile per riconoscere le erbe e capirne le proprietà, lei che rispetto ai dottori era certamente all’avanguardia nel metodo della diagnosi delle malattie, dovette vivere per sei anni in quel paese di bigotti vestendo i panni del fantasma. Erano ricordi che conveniva cancellare dalla mente.
Per Elsa non arrivò il giorno del ventesimo compleanno di Isolina. Lasciò la terra di sofferenze e di espiazioni con una dignitosa e rispettosa età a cui molti non arrivavano per via di malattie, battaglie, assassinii. E così Isolina si ritrovò a vivere tutta sola in una casetta in mezzo al bosco. Due estati dopo la ragazza decise che era tempo di andarsene da quel paese e cercare altrove persone più simili a lei, con il suo stesso credo e le sue stesse conoscenze. Era rimasta a Mezzapietra solo come segno di gratitudine verso i Cavalieri Ospitalieri e per non addolorare Elsa.
Doveva ascoltare il suo cuore Isolina, quando decise di partire anche se era inverno, ma fu fermata dal pressare delle voci che sentiva dire di grandi valanghe e tormente da perdersi e morire assiderati. Era in effetti uno degli inverni più rigidi a cui avesse assistito. Così rimase sola nella casetta a svernare, con qualche sporadica visita di malati con cesti di cibarie, che divideva volentieri con i suoi unici amici, i lupi.
E venne quel fatidico giorno. L’inverno era passato e da qualche settimana lei aveva festeggiato in gran segreto  ‘Ostara’, l’Equinozio di Primavera. Era arrivata di fatto la primavera con fiori, passeri e profumi. Ma più si avvicinava il suo compleanno, più sentiva l’aria pesante, rarefatta, un odore acre invadeva le sue nari, ma difficile era capirne l’esatta provenienza. Un caldo eccessivo per la stagione, rendeva più faticoso il lavoro nei campi. Le visite di malati in cerca di sollievo si intensificarono e Isolina si pentiva di non essere partita subito dopo la festa dell’equinozio. C’era qualcosa nell’aria che l’agitava. Gli altri abitanti del villaggio non sembravano accorgersene, ma lei invece, ogni volta che girava il viso verso il mare, sentiva il cuore battere forte. Paura, dolore, angoscia, era questo ciò che provava, ma non sapeva trovare la spiegazione e non poteva certo confidarsi con chicchessia, non poteva diffondere una paura immotivata. Eppure il suo cuore e i suoi sensi le dicevano che stava per arrivare qualcosa di malvagio e che probabilmente sarebbe giunto dal mare, con le onde e le schiere di navi che di lì a qualche giorno avrebbero fatto ritorno a casa carichi di merci e di danaro. Era stato un anno propizio per il commercio navale, lo dicevano tutti. Spezie nuove e stoffe pregiate erano allocate nelle stive, ma con esse trovarono un ricovero sotto coperta anche topi e pulci che traversarono i mari recando una disgrazia. E lei li vide il giorno che le navi attraccarono, li vide scendere dalle imbarcazioni. Nessuno faceva caso a qualche topo nella stiva, bastava collocare un gatto e le cibarie erano ben custodite. Ma qualche topo riesce sempre a trovare una via di fuga e quelli che scendevano lungo la fune di ancoraggio erano topi davvero grandi e avevano occhi di fuoco. Così parve a Isolina che sentì un brivido lungo la schiene quando voltandosi udì il capitano parlare:
“Non è stato un viaggio tranquillo. Sei uomini si sono ammalati e sono morti nel giro di pochi giorni. Abbiamo gettato i corpi in mare e ripulito la nave. Ora dovrò trovarmi altri bravi mozzi”.
Lei sapeva. Come e perché non le era dato di capire, ma sapeva. Sopra le grandi navi ancorate al porto lei sola vedeva una gigantesca ombra, quasi un mantello nero, che avanzava a coprire tutto e tutti. Uomini e donne discorrevano a gran voce e con gran risate. Si scambiavano merci e danaro. I marinai alzavano le sottane alle belle donne che si buttavano tra le loro braccia. Tutto come al solito durante i grandi rientri dai viaggi di mesi e mesi, ma questa volta lei vedeva, solo lei vedeva e solo lei tremava dal terrore.
E fu una notte di tempesta come nella miglior tradizione delle storie di fantasmi, che qualcuno bussò alla sua porta con urla di disperazione. Era una donna e nella tempesta la sua voce si perdeva. Isolina si svegliò di soprassalto e andò alla finestra. Una donna bagnata fino alle ossa che urla. Non aveva parlato con nessuno di ciò che aveva visto al porto, quindi non poteva essere una convocazione del consiglio. Isolina aprì la porta e accolse la donna che a stento riusciva a infilare una parola dietro l’altra.
“Il dottore ci ha provato, ma… ecco…io so che non dovrei, no non dovrei. Ma tu conosci cose che noi… forse è peccato, ma lui sta morendo. Per favore fai qualcosa. Dammi qualcosa… io non posso”. E scoppiò in un pianto disperato. Isolina tentò di farla calmare offrendole una tazza di te per scaldarla e quando la donna riuscì a smettere di singhiozzare, poté capire il problema. Suo marito faceva parte dell’equipaggio di una delle navi, anzi per la precisione, della nave su cui erano morti sei uomini. Quando arrivò a casa quel giorno era apparso molto stanco e pallido, ma nulla di più. Dopo dodici giorni però, l’uomo era stato preso dalla febbre alta e dal delirio. Vomitava, aveva dolori ovunque e cosa più terribile, sul suo corpo si erano diffuse delle pustole orrende a vedersi. Soffriva molto e i medici avevano tentato tutto il possibile, finché si arresero e dissero alla moglie che era troppo tardi, che si poteva solo pregare per la sua anima. Tuttavia la donna non volle arrendersi e ricordandosi di una casetta nel bosco e di una fanciulla col viso da angelo che un giorno aveva guarito suo figlio dai vermi in pancia, decise di andare a chiederle aiuto, di nascosto, di notte, nella tempesta. Quella notte la ragazza vegliò sull’uomo applicandogli unguenti e dandogli da bere decotti: agrifoglio per scemare la febbre, valeriana per calmare il delirio, elicriso per sedare i dolori del corpo,  sambuco per contenere il mal di testa. Tutte erbe e piante che aveva raccolto anche di notte, lontana da sguardi indiscreti, quelle conservate in vasi di vetro e che ora aveva sapientemente mischiato nel paiolo inondando la casa del malato, di freschi aromi che cancellavano il puzzo della malattia.
“Posso dargli sollievo dai dolori, ma non sono in grado di guarirlo. E’ una malattia che non ho mai veduto prima d’ora. E’ molto forte e l’ha già completamente devastato. Forse se fossi venuta prima”. Così parlò Isolina alla donna che la guardava con occhi pieni di disperazione.
Isolina lasciò la casa del mercante quando poche ore dopo esalò l’ultimo respiro. Vennero a portarlo via e la ragazza sussurrò all’orecchio di un dottore che occorreva dare fuoco alle sue carni. Il dottore inorridito le urlò contro che era un’atrocità e che l’uomo avrebbe ricevuto degna sepoltura come tutti i cristiani. E segnandosi con la croce se ne andò ignorando Isolina, che per quella frase aveva rischiato tanto. Non ci volle molto tempo prima che nel villaggio la malattia iniziasse a diffondersi con estrema facilità. Isolina trascorse giorno e notte a studiare e cercare di comprendere la malattia in tutti i suoi aspetti, come si diffondesse, come agisse sul corpo e soprattutto come curarla. Lei aveva le soluzioni, ma di fronte al terrore e alla paura che attanagliava le persone, non sarebbe stato facile farsi ascoltare dai dottori. Così la ragazza si fece coraggio e lasciò la casetta nel bosco con sotto il braccio i suoi appunti. Scelse di andare a parlare con uno dei dottori che la conosceva sin da bambina, sperando nella comprensione e nell’appoggio. Isolina gli parlò candidamente, quel pomeriggio di fronte a una tazza di tè e gli spiegò i metodi giusti per evitare il contagio, per evitare una rapida diffusione della malattia e per alleviare le sofferenze di quelli già malati. E forse c’era anche la possibilità di guarire. Il dottore l’ascoltò e anche se con tanta perplessità e timore, sapeva che quella ragazza diceva cose sensate, ma come poteva giustificarlo di fronte al popolo e ai signori reggenti. Era troppo pericoloso.
“Tu sai cosa significa questo ragazza mia, potresti ritrovarti un cappio al collo”.
“Lo so bene, ma non posso ignorare ciò che sta accadendo. Se non interveniamo saranno tutti morti entro il prossimo autunno. Per questo vi chiedo aiuto, se parlerete voi in assemblea, vi daranno ascolto e non penseranno che siano cose che arrivano dal male”.
Come dire di no a quegli occhi pieni di ardore. Quegli stessi occhi che il dottore, conoscendola bene, sapeva recassero un marchio pericoloso. Fin ora nessuno l’aveva notato, perché Isolina non viveva dentro al villaggio e quando ci andava per le spese, lo sguardo era sempre basso. Ma dentro al suo occhio destro c’era quello che chiamavano il segno delle streghe. Lui, uomo di scienza più che di fede, non aveva mai tradito il segreto della ragazza perché le voleva bene e perché era stata in grado di aiutare suo figlio di otto anni là dove anche lui non era riuscito. Così decise di aiutarla, ma fece sapere a Isolina che se non gli avessero dato retta, non avrebbe insistito per non mettere in pericolo la sua famiglia. La ragazza era d’accordo ed era felice e mentre porgeva al dottore tutti i suoi appunti, gli disse:
“Vi prego, non esitate a chiedermi aiuto e tenetemi aggiornata. Venite nel bosco a dirmi se i miei metodi funzionano”.
Fu così che il dottore parlò in assemblea e tutti lo ascoltarono un po’ increduli, un po’ preoccupati e un po’ disorientati. Tutti sapevano che era un uomo non propriamente devoto e le cose che proponeva sembravano assurde e anche un po’ eretiche. Ciò che sconvolse di più i presenti fu la questione dei corpi bruciati. Il dottore spiegò che era necessario al fine di arrestare l’epidemia perché i cadaveri erano un veicolo di trasmissione del virus. Dovevano tutti quanti portare fazzoletti legati al viso per proteggere naso e bocca. Dovevano costantemente lavare bene mani e cibo prima di sedersi a tavola. I vestiti dei defunti dovevano essere bruciati con loro e non riutilizzati dai famigliari. In casa si doveva tenere costantemente acceso il fuoco, anche se era estate, per allontanare le pulci. Non si poteva più giocare con animali e non si poteva più lasciarli entrare in casa. I rifiuti dovevano essere accantonati in un luogo e dati alle fiamme. Lanciare rifiuti dalle finestre era pericoloso, richiamava ratti e diffondeva la malattia. Anche gli escrementi personali non dovevano più essere gettati per strada, ma dovevano essere raccolti in un contenitore e gettati fuori dal villaggio, in una fossa che sarebbe poi stata coperta con la terra. Queste erano le indicazioni per debellare la malattia, ma la folla si inferocì quando il dottore dette le ultime due regole. Non si potevano più organizzare gruppi di preghiera perché le riunioni erano occasione di diffusione del virus per via aerea, in fine le persone malate avrebbero dovuto stare in un luogo isolato per quaranta giorni, curati solo dal dottore e dalla sua assistente.
“Voi siete pazzo. Non possiamo smettere di pregare. E’ chiaro a tutti che questa disgrazia sia volere di Dio per causa delle nostre mancanze. Se smettiamo di pregare la punizione sarà tremenda”.
“Io non so se questa sia una piaga mandata da Dio, ma nessuno ha detto che non dovete più pregare, solo non dovete farlo in gruppo”.
“No. Non è possibile. Tutti sanno che la preghiera collettiva è più forte e più efficace”.
“Forse è confortante, ma non efficace. Sono già morte dodici persone tra cui due bambini, in sei giorni. Sono riuscito a stabilire i tempi di incubazione del virus e quindi…”
“Incuba che? Dottore, anche se siamo molto preoccupati e molto diffidenti verso le sue teorie, proveremo a fidarci, ma nessuno mai ci impedirà di continuare a pregare insieme”.
Quella sera il dottore riportò a Isolina tutti i fatti e tutte le parole e la ragazza con un sospiro disse che almeno avevano ottenuto buoni risultati per le altre regole. Il tempo passava e il caldo estivo indeboliva maggiormente le persone e non si vedevano ancora miglioramenti nel controllo del contagio e un giorno gli abitanti di Mezzapietra spaventati, andarono dal dottore a protestare.
“Io vi ho detto come fare. Avete seguito buona parte delle mie indicazioni e infatti il villaggio non è già distrutto come quello di Agars su a nord ovest. Ma vi ostinate a raggrupparvi e questo non va bene”.
Rassegnati decisero quindi di non radunarsi più e questo, insieme alle altre regole, fu ciò che salvò il villaggio di Mezzapietra, uno dei più grandi di quell’epoca, che riuscì a superare l’epidemia perdendo meno della metà dei suoi abitanti. E’ risaputo che uno dei peggiori difetti dell’uomo è l’ingratitudine, così quel giorno sulla piazza, mentre si preparava la pira, il dottore disperato cercava di convincere i preti a desistere da quell’assurdità. Ma ormai tutto era deciso: la strega doveva morire. Successe che dalla pazzia per la disperazione e la paura della morte durante l’epidemia, si passò all’isteria di massa quando, un giorno una donna iniziò a gridare per tutto il villaggio che erano guariti perché una strega aveva fatto un patto con il demonio. Questa donna aveva seguito il dottore mentre andava da Isolina a dirle che ormai tutti erano guariti e che nel villaggio non c’erano più tracce della malattia. La ringraziava per tutti i suoi unguenti e medicamenti e soprattutto per le regole. La donna nascosta udì tutto, ma riportò ciò che più le sembrava opportuno. Isolina aveva preparato, unguenti, aveva irretito il dottore e aveva danzato con il diavolo. In soli tre giorni Isolina era stata catturata, imprigionata, torturata e condannata. A nulla valse l’intervento del dottore che spiegava che se erano vivi lo dovevano alla ragazza, alla sua intelligenza e non al demonio. Dalle alte sfere era stato deciso: il rogo per purificare il villaggio dalla presenza di una strega, colei che portava anche un neo nell’occhio destro. Tutti sapevano che le streghe hanno un neo nell’occhio e in presenza di ciò, non occorre nemmeno la confessione. Fu così che un giorno d’autunno una pira in piazza si portò via l’anima di una giovane donna, Isolina, colpevole unicamente di essere molto intelligente, di essere nata nell’epoca sbagliata, di aver salvato il suo popolo e di essere donna. Nessuno si ammalò più e questo certamente perché avevano bruciato la strega e non perché lei li avesse salvati. Per secoli ancora si visse nel buio dell’ignoranza, legati alle catene del controllo della chiesa, annientati dalla superstizione e dalla paura e per questo motivo, molte donne trovarono la morte, ingiustamente, orribilmente. Chi si ricorderà di loro? Chi si ricorderà di Isolina? Forse, solo chi ha la luce nel cuore, solo chi riesce a vedere il germogliare di un fiore anche di notte..
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Racconto partecipante alla settima edizione di © Philobiblon (2010)

mercoledì 27 marzo 2013

Sébastien de la Croìx

Spalancò gli occhi, terrorizzato.
La vista era ancora annebbiata, non gli permetteva di distinguere i contorni delle scure figure che lo circondavano, muovendosi e ondeggiando, protendendo le mani verso di lui.
"Sono all'inferno, la mia anima è persa per sempre!"
La febbre, dovuta all'infezione, lo fece fortunatamente ricadere in una oscurità assoluta, senza suoni e sensazioni.
"Cosa ne pensi medico?"
La voce profonda del supremo comandante dell'esercito dell'Islam Yusuf Ibn Ayub Salah-al-Din chiamato Saladino in occidente, fece sussultare come al solito, il povero medico.
"La freccia è stata tolta, la ferita cauterizzata...non resta che aspettare che la fibra forte di questo cristiano vinca la morte, domani all'alba saprò se..."
"E non mi chiedi, fido amico, perché ti ho fatto curare un crociato?"
"Allah è grande, Allah percorre sentieri misteriosi e voi, illuminato da Allah, avrete..."
"Le mie ragioni? Sì e a te solo, bada, voglio raccontarle ma che non una parola esca dalle tue labbra, altrimenti..."
Il medico annuì, spaventato e sudato; ne avrebbe fatto a meno delle sue confidenze, ma invitato a sedere nella magnifica tenda del suo signore di fronte a lui, pregò dentro di sé Allah che lo aiutasse a finire in bellezza quella strana giornata.

Dal buio Sébastien emerse a poco a poco: davanti a lui barlumi di luce cominciarono a brillare; gli sembrava di percorrere, da solo, un oscuro tunnel, alla fine del quale c'era una brillante nebbia luminosa.
Rivide sua madre che lo chiamava a sé, gli tendeva le braccia per abbracciarlo, come faceva da bambino.
II viso delicato della madre, morta per polmonite quando lui aveva solo tredici anni.
Nel delirio, la madre di Sébastien ora lo respingeva indietro, dolcemente ma con determinazione.
Le sue labbra era ferme, ma la voce era nitida.
"Torna, figlio mio, torna indietro, non è ancora tempo per te di vedere il paradiso..."
"Perché parla e si lamenta in codesto modo medico?"
"Il corpo sta combattendo la morte, lo spirito è sulla soglia di..."
Saladino come al solito, lo interruppe.
"Vedi, questo cristiano rispecchia un sogno che ho fatto dopo la presa di Gerusalemme.
Tu credi nei sogni, Abdul?"
"Alcuni profetici li manda Allah agli eletti, ma perlopiù è il riempire la sera troppo il ventre che..."
Scoppiò a ridere fragorosamente, il temuto Saladino.
"Hai ragione, ma questo vedi è stato uno strano sogno, nessuno dei miei saggi ha saputo
spiegarlo.
Ma bevi, bevi ancora con me questa menta è deliziosa."
"Ero in uno strano luogo" riprese il Saladino dopo una lunga pausa, il volto assorto.
"Alte montagne, quali mai ho visto nei miei viaggi mi apparvero, verdi valli percorse da torrenti copiosi d'acqua.
Una grande oasi messa da Allah dall'alto in basso, e poi mi ritrovai in cima, vicino al sole che bruciava, più forte che nei nostri deserti.
Camminavo su una sabbia bianca, gelida come le nostri notti, quando non bastano mai le pelli per coprirci dal freddo..."
"Sabbia gelata? sabbia bianca?
Povero Salah-al-Din che sogno è mai questo?" pensava il povero Abdul, ma tacque.
"Mi ascolti?" lo interruppe il sovrano. "Perdonatemi!"
"Poi dall'alto - continuò Saladino - piombò un uccello maestoso, dall'occhio di fuoco che mi impose di guardare l'orizzonte.
Non scorsi nulla dapprima, poi... un punto lontano diventò la figura di un giovane guerriero, lo sguardo fiero, la spada sguainata.
"Salah-al-Din!" disse una voce potente!
Ricordati, quest'uomo salverà due re, rendigli giustizia!
Mi ritrovai tremante su quella sabbia gelata e poi mi destai..."

Nel delirio, sognava ancora Sébastien.
Duellava nella sala d'armi con suo fratellastro Roland quella sera di fine luglio.
Il loro padre, Pierre de la Croix aveva avuto Roland dal primo matrimonio, ma la moglie era morta mettendolo alla luce.
Si era poi risposato, ma anche la seconda moglie, madre di Sébastien avrebbe lasciato presto questo mondo, con suo grande dolore di tutti.
Roland, essendo il primogenito, avrebbe ereditato per la legge del maggiorasco, tutti i beni della famiglia.
Molto forte era il legame affettivo tra i due ragazzi; Roland, orfano di madre, aveva istintivamente preso sotto la sua ala protettrice Sébastien, più piccolo di lui di cinque anni, comprendendo a pieno il suo stato d'animo nel momento del distacco dalla madre.
Il padre dei ragazzi li vedeva crescere uniti e pensava alla diversità di carattere tra i due.
Bruno e tarchiato il maggiore, di poche parole, biondo e snello il minore, sempre mobile ed irrequieto, capriccioso da bambino e avventuroso poi, e sempre a caccia di ragazze che del resto, l'adoravano.
Quando anche per lui arrivò il momento, si spense serenamente, raccomandando ai suoi figli di tenere sempre testa al Duca de la Salle; da lustri cercava di annettersi la valle dei De la Croix, appoggiato da potenti amici alla corte reale.
"Hai proprio deciso, Sébastien, vuoi proprio partire per questa crociata?"
"Attento, fratello stai scoprendo la destra!"
Sì ho deciso, tutti i miei amici cadetti partono per questa giusta causa, liberare Gerusalemme dall'infedele, conquistare la gloria, l'onore, la..."
Con un balzo improvviso, Roland eseguì un affondo ed Agustin, il maestro d'armi, dichiarò finito il duello.
"Ma non è giusto, fratello, voglio la rivincita!"
Roland sorrise, pensando che a diciotto anni e mezzo e in procinto di essere investito cavaliere, Sébastien non voleva saperne di perdere.
Si tolsero l'armatura leggera di allenamento. "Vieni, Sébastien, parliamone." insistette Roland.
Fu tutto inutile: il ragazzo scalpitava e Roland invano cercò di spiegargli che molti di quelli che partivano, erano intenzionati a razziare piuttosto che liberare il santo sepolcro di Cristo.
Sébastien essendo stato educato con ideali cavaliereschi, non poteva credere che una santa crociata in cui interveniva il re di Francia, non potesse essere un'avventura meravigliosa.
Partì dopo un mese, affidando a Roland il falco pellegrino che suo fratello gli aveva regalato per il suo diciottesimo compleanno.

"Io non ci capisco niente ed ho anche fame!" pensava Abdul.
"Cosa ne pensi Abdul, del mio strano delirio?"
"Mah, è forse mandato da Allah..."
Salah-al-Din che conosceva bene il suo fedele medico, battè le mani e da dietro una spessa tenda, apparvero vassoi di vivande portate da tre ragazze velate.
"Tu hai fame, Abdul ti conosco, non ragioni se non mangi; io intanto proseguo a narrarti questa strana storia del cristiano."
"Dunque, mi dimentico nel tempo del sogno che pure mi aveva perseguitato per mesi e siamo alla battaglia di ieri.
Ti ricordi tutto della battaglia, amico?"
"Gloriosa battaglia, Allah..."
Con in bocca un grosso boccone di agnello arrostito, era difficile declamare di più e Salah-al-Din proseguì, condiscendente.
"Tutti dicono di me che sono giusto e misericordioso, ma spietato con gli infedeli.
Sai che di rado ormai partecipo alla battaglia di persona, i miei scaltri consiglieri mi vogliono bardato da re sul mio cavallo a sovrastare." sogghignò Saladino.
"Tu mi conosci più di chiunque altro, sai quale fuoco arda ancora dentro di me." "Allah vi ha concesso di vivere in forza, ma dovreste ora..."
"Cosa devo fare, lo so!
Allora, l'esercito cristiano era schierato fuori le porte della fortezza.
Io, vestito della stessa armatura dei miei guerrieri scelti, ho voluto provare se le mie forze
fossero ancora quelle di un tempo.
Ho portato solo la mia fida scimitarra, da lei non mi separo mai."

Un dolore acuto fece risvegliare Sébastien.
Dove si trovava?
La vista, di poco migliorata, gli fece scorgere l'interno di una grotta, forse una tenda e due figure avvolte in bianchi barracani nel fondo.
Abdul si accorse del suo risveglio per primo.
"Dove, dove sono?" chiese Sébastien.
"Cristiano, ringrazia Allah di essere vivo e bevi questo, subito!"
Anche Salah-sl-Din si era avvicinato.
"Sono prigioniero?"
Gli occhi di Sébastien, azzurri come il mare, erano pieni di fierezza.
Salah-al-Din guardandolo, pensò alle sue due fìglie, dagli occhi scuri come la pece. Allah gli avrebbe mai dato un figlio maschio?
"Ospite, cristiano, sei ospite." "E di chi?"
Ma la potente pozione sedativa che Abdul gli aveva propinato lo fece ripiombare nel sonno ancora una volta.

Nella valle dei De la Croix, tutti sentivano la mancanza di Sébastien.
Roland si era deciso a sposarsi, ma il suo matrimonio non era stato per amore, piuttosto per assicurare un discendente alla famiglia.
Si accorse ben presto però, che la moglie Sophie era dispotica ed arrivista.
Quando nacque Jacques, Sophie si addolcì, sperando per suo figlio un futuro luminoso, magari nella capitale.
Era passato un anno dalla partenza di Sébastien di cui lei aveva sentito così tanto parlare con ammirazione e di cui inconsciamente era gelosa.
Voleva essere il centro delle attenzioni di Roland, il quale pensava continuamente a suo fratello, soffrendo per la mancanza di notizie dalla Terra Santa.
Quella settimana, gli avevano portato il falco pellegrino di Sébastien, ferito ad un'ala durante una battuta di caccia.
L'aveva preso come un triste presagio e aiutato dallo speziale del convento, l'aveva curato con grande apprensione, quasi fosse Sébastien stesso.

Era immerso nella polvere Sébastien, mentre continuavano le visioni del suo passato.
Il sangue, il sudore, l'odore della morte, tutto quello che alla partenza non avrebbe mai immaginato essere possibile, era reale, davanti ai suoi occhi.
Era un valoroso e coraggioso crociato; l'esperienza, oltre all'ottimo allenamento fatto da ragazzo con il suo maestro d'armi, lo aveva temprato in poco tempo.
Il re di Francia difatti, poco avvezzo ad esporsi, l'aveva voluto a combattere tra la sua guardia personale.
Quel giorno la battaglia si era fatta sempre più cruenta, incerta.
Era tutto un portarsi avanti ed arretrare tra le due fazioni.
La croce rossa di Cristo sventolava alta e la mezzaluna nera la contrastava.
Molti cavalli dei crociati erano stati azzoppati o colpiti da frecce, il corpo a corpo si stava trasformando in un massacro.
Stille di sudore rigavano la fronte e mondavano gli occhi di Sébastien.
Fendeva sicuro con la sua spada i corpi dei nemici, poi d'improvviso qualcosa lo fece voltare: accanto a lui, il re di Francia, appiedato e stanco, stava per essere colpito alla testa da una scimitarra nemica.
Lesto, tirò fuori un pugnale da lancio, lo lanciò trafiggendo la mano del musulmano. Era sempre stato il migliore nelle gare di lancio del pugnale nella sua valle. Il re ebbe tempo di arretrare, sapendo chi l'aveva salvato.

"Abdul, allora sopravviverà?"
"Pare di sì, quel cane di un cristiano,"
"Quel cane, Abdul, ha impedito che un altro cristiano mi colpisse alle spalle.
In cambio, ha ricevuto una freccia dei nostri arcieri, i migliori del mondo, nell'incavo
dell'omero, ove le loro armature hanno un punto vulnerabile."
Era ormai l'alba, la febbre stava scendendo, il respiro di Sébastien si era fatto più regolare.

Gli sembrava ora, di combattere ancora.
Ritiratosi il re, la battaglia proseguiva ancora, ma era chiaro che la sconfitta dei cristiani fosse imminente.
Al tramonto, tutto sarebbe finito e forse sarebbe stato possibile raccogliere i corpi. Una profonda tristezza lo aveva preso, ma combatteva ancora.
Di fronte a lui, un vecchio soldato musulmano si batteva come un lcone, con la scimitarra più bella che avesse mai visto, spada da re.
Era prostrato il vecchio, non si accorse che dietro le sue spalle, un crociato lo stava per trafiggere.
"No, non così, per amore di Cristo, no!"gridò Sébastien.
Gli usi della cavalleria, non consentivano di colpire alle spalle. Sébastien era un cavaliere d'onore, oltre ad essere un crociato.
Tanto bastò perché la guardia personale di Salh-al-Din, messa in allarme dal grido di Sébastien, intervenisse.
Il crociato fu giustiziato all'istante e il vecchio fu portato via, ma Sébastien non fece in tempo a comprendere la situazione.
Una freccia avvelenata gli aveva fatto perdere i sensi, dopo pochi secondi Salah-al-Din impartì ordini secchi, lasciando stupefatti i suoi.
Lo avevano portato via, per farlo curare.
Abdul aveva ascoltato lo stesso episodio che il crociato stava rivivendo nel sogno, raccontato dal suo sovrano.

Era solo un medico, ma non possedeva una mente illuminata, pensò solo che Allah era stato magnanimo con entrambi.
Arrivò l'alba, Sébastien superò il peggio.
Fu trattenuto fino a ristabilirsi completamente.
Molti e segreti furono i discorsi tra lui e Salah-al-Din che s'interessava di matematica e di astrologia e di cui Sébastien aveva una vaga conoscenza.
Persino Abdul fu escluso da quegli incontri.
Volle sapere usi e costumi della Francia, ma volutamente nessuno dei due parlò di armi ed attrezzature militari.
C'erano le spie per quello.
Quando fu il momento, Salah-al-Din gli fece dono di un cavallo delle sue scuderie e Sébastien promise di fargli avere in qualche modo, uno dei famosi falchi pellegrini della sua valle.
"Ragazzo, perché sei venuto a Gerusalemme?" gli chiese Salah-al-Din all'ultimo istante.
"Per liberare il santo sepolcro dagli infedeli!" rispose Sébastien sorridendo.
Fremettero i dignitari, mettendo mano alle armi.
"Fermi!"
"Anche noi, Sébastien, anche noi siamo qui per lo stesso motivo! Possano i nostri popoli comprendersi un giorno.."
Abdul assistendo alla scena, continuava a non capire cosa avesse di speciale questo cristiano, ma si ripeteva, Allah percorre vie oscure all'uomo.

II falco pellegrino si era ripreso, l'ala era guarita, ma nonostante gli sforzi di Roland e del capocaccia non ne voleva sapere di volare.
"Testardo come mio fratello, uguale!" pensava Roland che di nascosto di sua moglie Sophie, parlava a Jacques dello zio partito per la crociata, forte e valoroso.
Il bambino era molto intelligente, già parlava bene e si mostrava ardito, come tutti i De la Croix.
Quel giorno, sulla torre del castello, scrutavano assieme l'orizzonte.
Il duca de la Salle, nemico della famiglia era perito per un pasto abbondante di funghi, di cui era ghiotto.
Alcuni parlarono di veleno, ma erano così tanti i suoi nemici che chiunque avrebbe potuto farlo.
Morto senza eredi, il ducato era tornato per legge sotto la tutela della corona.
Un grande pericolo si era eliminato da solo e Roland aveva tirato un sospiro di sollievo.
Qualcuno lo chiamò dal cortile del castello. "Mio signore, mio signore!"
Prese in braccio il piccolo e scese.
Un messaggero del vicino feudo di Belleville gli portò un messaggio.
Il re di Francia con altri crociati, ritornava in patria.
Sul suo trespolo, senza che nessuno lo vedesse, il falco di Sèbastien che nessuno legava più, allargò le splendide ali ed abbozzò un breve volo.
Passò ancora un mese: voci da Marsiglia e Lione arrivarono, parlavano di un ritorno dei francesi, poi furono solo piccoli drappelli ad arrivare.
Roland festeggiò il ritorno di amici crociati che erano finalmente tornati, pochi per il vero.
Il suo cuore era gonfio di tristezza, di suo fratello nessuno sapeva qualcosa e persino sua moglie si era commossa, ed era andata a pregare più volte nella cappella del castello per impetrare la grazia della Vergine Maria.
Quel giorno di settembre, già le cime delle Alpi erano imbiancate di neve, ma il sole era ancora caldo.
Roland pensò di far prendere un po' d'aria a Jacques, si fece preparare il cavallo e lo montò con lui.
Il portone gli fu spalancato ed il desto cavallo si mosse tranquillo, agli ordini del suo padrone.
Non fece in tempo a percorrere pochi metri che dagli spalti del castello si lanciò nel vuoto una freccia alata dalle stupende ali distese.
"Padre, padre è il falco dello zio!"
Roland si girò di scatto: era proprio lui, forse aveva scelto la libertà, forse aveva dimenticato il suo antico padrone.
Il volo in tondo, sembrava non finire mai, poi di colpo ed in picchiata si diresse verso la piccola cappella sul sentiero, là dove i contadini pregavano prima del lavoro.
Si fermò a terra, ai piedi di un giovane uomo a cavallo fermo davanti all'immagine dell'edicola, nascosto alla vista fino a quel momento dagli alberi del sentiero.
Il bimbo non ebbe dubbi: "Zio Sèbastien?"
Non bastarono i giorni e le notti ed i banchetti per farsi raccontare tutto da Sébastien che fu al centro dell'attenzione di tutti per giorni e giorni.
Persino la cognata lo prese a benvolere, perché non lo percepiva più come un pericolo reale.
Una sera però, guardando Sébastien negli occhi Roland capì era sì un uomo fatto, ma provato e stanco, senza illusioni sul proprio futuro.
"Cosa pensi di fare ora, fratello mio?"
"I fratelli cadetti o ripartono in guerra o si mettono al servizio del re.
Ho visto troppo sangue, Roland, troppi morti, non so cosa fare della mia vita, fratello."
"Non dire così fratello mio, abbi fiducia."

A fargli fare qualcosa, ci pensò il re di Francia, che tra tanti cortigiani bramosi di potere, donò il ducato de la Salle all'unico nobile che non l'avesse richiesto dopo la crociata e per di più quello gli aveva salvato la vita in Terra Santa.
Aveva bisogno di alleati sulle Alpi, era in lotta con il re d'Inghilterra e mise tutti a tacere.
Prima della cerimonia di investitura, Roland, Sébastien e Jacques si erano riuniti per la vestizione nella sala d'armi.
Sébastien ancora dolente alla spalla destra colpita dal dardo, fu aiutato da suo fratello Roland ad indossare l'armatura d'onore richiesta dal cerimoniale.
"Mio signore mio duca, ora che siete più vicino agli occhi del re, dovremo inchinarci al vostro cospetto?" chiese scherzosamente Roland al fratello.
"Vedremo conte, vedremo.
Aspetta che mi guarisca la spalla e poi ti sfido a duello. Ho una rivincita, ricordi?"
Risero copiosamente i due fratelli, finalmente insieme.
Jacques era estasiato e nel suo cuore conservò per sempre le immagini del padre e dello zio, e di quel giorno speciale.

Sotto la tenda, a miglia di distanza, fremeva Salah-al-Din.
Fatima la sua terza moglie stava partorendo, senza troppo lamentarsi.
Abdul gli era accanto, ma non poteva assistere.
La donna più anziana ed esperta dell'harem fungeva da levatrice.
Ci fu un profondo silenzio e poi un acuto vagito.
Salah-al-Din invecchiato, sembrava un padre ansioso alle prime armi.
"È un maschio!", gli disse l'anziana donna, porgendogli un fagottino urlante.
"Allah è grande!" commentò Abdul, tanto per non sbagliare.
La sua mente corse subito a tutte le portate prelibate che non sarebbero mancate ai banchetti offerti dal suo generoso signore e amico.
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Racconto partecipante alla settima edizione di © Philobiblon (2010)