mercoledì 6 luglio 2011

Durazzo. Anno Domini 1082. Il racconto

CAPITOLO I
Prefazione

Il Saggio recentemente pubblicato “Durazzo, Anno Domini 1082“ illustra le vicende della Città bizantina che, assediata dai Normanni, cadde per mano di un “traditore“ di Venezia, imparentatosi come ricompensa con gli Altavilla.
Tuttavia è ben difficile che il  “tradimento“ sia stato opera di un singolo, pur con tutti i vantaggi personali del caso, e non abbia anche avuto il placet della stessa Serenissima che di li a poco avrebbe ottenuto dalla prostrata Bisanzio amplissimi privilegi commerciali con la Crisobolla.
Insomma anche allora il “tradimento“ o, con un termine più soft, il trasformismo era un affare di Stato, ulteriore dimostrazione del detto latino “nihil novi sub sole“.
Poiché il racconto si dipana come una vera e propria spy story medioevale, oltre alla stesura del Saggio storico, con questo Volume ci si è cimentati a narrare le stesse vicende sotto forma di un Romanzo, lavoro difficoltoso per l’ Autore mai misuratosi  prima con un tal genere letterario.
Gli avvenimenti sono quindi raccontati seguendo la sorte di due amici nell’ XI° secolo, chiamati entrambi Domenico, appartenenti rispettivamente alle Famiglie Caravello e Silvo, dalla gioventù fino alla guerra bizantino - normanna, che recò loro un diverso destino.

CAPITOLO II
Prologo

E’ la notte di Natale del 1130 a Palermo.
Un corteo di coppie di cavalli dai paramenti d’ oro e d’argento montati dai Notabili del Regno con Ruggero d’ Altavilla si snoda per il breve tragitto dalla Reggia al Duomo. Al suo interno il nuovo Monarca è consacrato dall’ Arcivescovo di Palermo, il quale riceve la corona dalle mani di Andrea, un giovane nobile, visibilmente emozionato nella sua ricca  tunica di seta.
“Padre è anche la nostra affermazione“, così Goffredo si rivolge al genitore, ancora ritto in Cattedrale, nonostante i suoi ottanta anni.
“Se pensi a quanta strada è stata fatta da quando tu eri a Venezia …“
“Si, ma allora ero giovane, dell’ età del nostro Andrea. Ormai tutto è compiuto“
Ed il pensiero del vecchio Domenico corre indietro nel tempo, a Venezia di tanti anni prima …

CAPITOLO III
Venezia

E’ la metà dell’ XI° secolo.
Grandiose opere di bonifica e di costruzione stanno facendo nascere da sparse isolette di una laguna una vera Città.
In palazzo affacciato sulla Giudecca con alle spalle Campo San Trovaso è appena nato il secondo maschio di una Famiglia che si occupa di carpenteria navale, i Caravello. Costoro provenienti da Equilio, ove gli antenati avevano pure ricoperto importanti incarichi di governo, si erano stabiliti in Dorsoduro, sito idoneo a proseguire questo lavoro.
Poco distante da Cà Caravello due umili donne se la raccontano.
“Al mio Padrone è appena nato un altro bambino e l’ ha chiamato Domenico, come il nonno materno. Si sa è il secondo dopo Francesco“ , così disse una serva dei Caravello.
“Pure il mio Signore ha da poco avuto un bimbo, il primo, che ha battezzato  Domenico, come la madre, che è morta poverina appena l’ ha messo al mondo. Per fortuna che è sano e robusto, altrimenti tutti i beni che ha dove andavano?“ così le rispose una domestica dei Silvo, Casato ancor più eminente di Torcello .   
Nella Venezia che tutti i giorni cambiava pelle i due Domenico crescono rapidamente.
Il Caravello passa gran parte della giornata fra le navi in costruzione nel cantiere paterno; lì ogni tanto lo raggiunge l’ altro Domenico che, senza la madre morta di parto e col padre sempre all’ estero per conto della Serenissima, è sempre solo nel suo splendido palazzo fra servi e maestri.
L’ amicizia fra loro diviene così salda che il giovane Silvo si sfoga in occasione del secondo matrimonio del Genitore.
“Mio Padre alla sua età poteva risparmiarsi di sposare quella Principessa Greca, Teodora. In più alla festa nel nostro palazzo ci siamo ricoperti di ridicolo, con tutte quelle movenze, i vestiti di seta, i profumi. “E poi" così proseguì,  “hai visto con che cosa mangia ? Prende i cibi invece che con le mani come fan tutti i cristiani con quei piccoli strumenti d’ oro con due lunghe punte. Il popolo se la ride ed i preti la maledicono“.
“Non prendertela, amico mio. Almeno tu se il Primogenito ed in un modo o nell’ altro coglierai il tuo destino. Guarda che tuo Padre vede distante. L’ aver sposato una Ducas, Figlia di un Imperatore, vi apre la strada al dogato, ormai il Contarini è vecchio e stanco. Non passerà molto tempo. Pensa piuttosto a me !“.
“Cosa vuoi dire ?“
“Voglio dire che la mia Famiglia è sì nobile, ma non così ricca da dividere fra più Fratelli quello che abbiamo. Sai l’ attività della carpenteria navale non è tanto  redditizia e quindi io, che sono Secondogenito, prima o poi dovrò lasciare le nostre Isole, in cerca di fortuna. E sai l’ Oriente mi sembra tutto da conquistare“.
Domenico Caravello è facile profeta.
Non passarono infatti due anni che il Popolo e la Nobiltà acclamano il Padre di Domenico Silvo, anche Lui Domenico, Doge alla morte del predecessore.
Nel frattempo Domenico Caravello insieme a diversi servi raggiunge Durazzo,  ponte naturale fra la sponda italica e quella  illirico-greca per il passaggio ad oriente con la via Egnatia che porta direttamente fino a  Salonicco e Bisanzio, per controllare alcuni commerci familiari.
In questa Città troverà una popolosa colonia di mercanti veneziani ed amalfitani ma anche la guerra …

CAPITOLO IV
Guerra

Una voce si diffonde fra i Veneziani.
L’ Imperatore di Bisanzio Romano sconfitto agli estremi dei suoi domini a Manzicerta dai Selgiuchidi ed a Bari dai Normanni è stato sostituito da Michele, il Cognato del loro nuovo Doge .
“Fortunato Domenico, ormai più nessuno lo fermerà“, pensa subito il Caravello con malcelata invidia.
“Ed io che faccio distante da casa, ora che i miei interessi commerciali sono pure minacciati dal fatto che sull’ altra sponda dell’ Adriatico comandano i Normanni …“
Infatti con la conquista di tutta la Puglia Roberto il Guiscardo ormai è padrone dell’ altra sponda dell’ Adriatico.
Ma anche in questo frangente il destino è benevolo con i Silvo e la Serenissima: Costantino, Figlio di Michele e Nipote di Teodora, sposa Olimpia, Figlia del Guiscardo.
Di fatto strette parentele legano ora i Veneziani, i Normanni ed i Bizantini, almeno i Casati regnanti.
Il nuovo equilibrio politico garantisce anni di tranquillità e prosperosi commerci anche a Durazzo.
Pur distante da casa Domenico si arricchisce e raggiunge autorevolezza all’ interno della propria comunità.
Della sua Città viene a sapere che l’ amico Domenico si è liberato dell’ odiata matrigna Teodora, morta nel frattempo per gangrena, e collabora sempre più strettamente col Padre, il Doge.
Anche per i Suoi rimasti in Laguna le cose vanno per il meglio, anzi …
Poiché la colla di pesce che impiegano da tempo nella costruzione delle navi è ottima alla bisogna, il cugino Francesco con Moglie e Figli si è trasferito a Genova per proseguirvi il mestiere.
Ma si sa come sono i Levantini ed a Bisanzio non fanno eccezione: improvvisamente  in seguito ad una ribellione dell’esercito Michele viene deposto e Niceforo ascende al trono.
Quanto costruito pochi anni prima con la diplomazia si sfalda rapidamente.
Ed a Bari, sull’ altra sponda dell’Adriatico, “Duca, duca“, così un’ ambasciatore apostrofa il Guiscardo, “a Bisanzio è entrato il Botaniate alla testa delle truppe“.
“Come sta Michele ?“
“Bene, per fortuna ha abdicato e si è rifugiato in convento. Non gli è stato torto un capello“.
“Allora, tutto è cambiato. Non ho alcun legame col nuovo Padrone del Bosforo né mio Genero e mia Figlia hanno un futuro. Ah se non avessi tutti quei problemi che ho qui in Puglia coi miei Baroni ribelli.“
“Ed allora ?“
“Tu ed altri ambasciatori andrete a Bisanzio a rivendicare i diritti della nostra Famiglia violati“
Qualche tempo dopo a Durazzo un mercante porta brutte notizie …
“Si, l’ ho visto coi miei occhi: a meridione intorno a Valona ci sono Normanni dappertutto. Dicono li comandi il Figlio del Guiscardo stesso, Boemondo. Dei soldati bizantini neanche l’ ombra. Chi difenderà noi Veneziani ?“
Fra i coloni palesemente spaventati dall’ annuncio è anche Domenico.
Tutti comprendono che  le trattative del Guiscardo con l’Impero sono fallite e quindi è la guerra.
“Amici, compagni, stiamo tranquilli“, così parla il Caravello, cercando di infondere coraggio a sé ed agli altri, “Al momento non sappiamo che cosa decideranno a Venezia, con chi allearsi, se allearsi. Una cosa è sicura. La nostra flotta è padrona dei mari e non ci lasceranno soli in questa Città, troppo importante per gli affari“.
Sulla Laguna nel frattempo non si è perso tempo. 
“Nobili e Popolo di Venezia, sapete che in Oriente stanno accadendo gravi eventi. I Normanni sono sbarcati a Valona a rivendicare i diritti violati del Casato Ducas, al quale ero legato dalla mia povera Moglie, il Signore misericordioso l’ abbia in gloria, ed a Bisanzio siede un nuovo Generale Alessio dei Comneni. Cosa facciamo ?“
“Attendiamo, vediamo cosa capita, non facciamoci prendere dalla fretta“, rispondono tutti all’unisono.
“E così sia. Dobbiamo vigilare e cercare di trarre il massimo profitto con poco nocumento“.
Il vecchio Doge ha ancora ragione.
Poche settimane dopo un’ ambasceria in pompa magna con numerosi doni giunge in Rialto da Bisanzio.
“Veneziani, sono al nostro cospetto gli Ambasciatori dell’ Imperatore, nostro Signore, per comunicazioni importanti“, così parla Silvo “Doge, Patriarca, Nobili e Popolo, la vostra Città, da sempre nostra alleata, avrà grandi vantaggi se rapidamente la flotta farà vela verso Durazzo, difendendola e guerreggiando coi Normanni. Non interessa cosa accadrà. Voi Veneziani potreste uscire vincitori con l’ aiuto di Dio o sconfitti. Comunque vada, sarete ricompensati con privilegi inimmaginabili garantiti da una Crisolla imperiale“.
Poco dopo gli Ambasciatori lasciano la Sala dell’ Udienza.
“Veneziani, la proposta di Bisanzio non è di quelle che si rifiutano anche perché comunque vada noi otterremmo privilegi commerciali garantiti con documenti ufficiali. Anche se sconfitti dai Normanni, non ne voglia il Signore, avremo comunque vinto“.
Ovviamente l’ assenso è totale e tosto si prepara la spedizione navale, comandata in persona dal Doge che porterà con sé il Figlio Domenico.
Ed a Durazzo ?
Improvvisamente tutti i Greci ed i Coloni sono chiamati nella Piazza Maggiore.
Così si rivolge loro, appena giunto in Città, il nuovo Comandante, Giorgio Paleologo.
“Durazzesi il momento è grave. Altre navi e soldati nemici sono arrivati dall’Italia e presto saranno da noi. Abbiamo poco tempo, ma sufficiente, per completare le fortificazioni, onde resistere il più a lungo possibile all’ assedio. Il nostro Imperatore, Alessio, cerca alleati ed ammassa truppe per venirci a libera. Abbiano inizio i lavori ! “
“Ecco cosa mi tocca“, borbotta fra se e se Domenico. “Ero venuto in Oriente a cercar fortuna ed ora mi trovo a fare il carpentiere come i miei servi, a rischio della vita !“
L’alacrità di tutti è premiata. Così quando un pomeriggio i Normanni giungono posizionando l’ accampamento in riva al mare, tutti gli abitanti sono ormai saldamente protetti da poderose fortificazioni.
Da subito gli assedianti costruiscono un’ immensa torre, alta come le mura, ricoperta da pelli affinché non bruci nel caso venga usato del fuoco liquido, con alla sua estremità diverse catapulte, pronte a scagliare pesanti proiettili direttamente all’ interno del recinto murario.
Non passano che pochi giorni, quando grida di giubilo si levano ovunque in Durazzo. Tutti gli assediati questa volta vedono l’arrivo della flotta di Venezia, che getta l’ancora a circa tre miglia a nord, in località Palli. Poiché le mutate condizioni atmosferiche impediscono una linea difensiva lungo la costa, il comando ordina la difesa d’ alto mare e legando fra loro e disponendo a semicerchio le galee maggiori, costruisce un porto marittimo, che protegga alle spalle il naviglio leggero da battaglia. Le grosse galee costituiscono un poderoso baluardo armato di solide torri erette intorno agli alberi con la sovrapposizione di palischermi, difesi da numerosi combattenti muniti di strumenti offensivi.
La mattina dopo tutti sono sulle mura in attesa della battaglia navale.
L’ammiraglia ed il naviglio leggero normanni investono il solido baluardo formato dal porto galleggiante  veneziano, nel tentativo di spezzarlo e scardinare la protezione creata intorno alle galee da battaglia.  La linea difensiva lagunare però regge saldamente e l’ammiraglia nemica, colpita da uno dei proiettili lanciati dalle torri improvvisate, è squarciata a poppa e rapidamente affonda. A questo punto la flotta normanna fugge disordinatamente e viene inseguita dalle galee della Serenissima fino alle sue basi terrestri.
I Veneziani sbarcano per colpire alle spalle il campo nemico, acquartierato in prossimità della costa.
Di concerto le milizie scelte degli assediati che il Paleologo aveva già preparato dalla mattina effettuano una vigorosa sortita.
Sulle mura ci sono tutti proprio tutti, nella speranza di vedere la rotta del nemico che, preso da due lati, pur patendo gravi perdite, resiste e così le milizie imperiali rientrano in Città e quelle veneziane razziato gran bottino riparano frettolosamente sulle navi.
“Ma Voi di San Marco cosa fate ?“ , “Siete forse ammattiti ?“ , “Avevate la vittoria in pugno e siete tornati sulle navi“, così i Coloni Amalfitani furibondi si scagliano contro quelli di Venezia.
Domenico che aveva lasciato la Laguna per l’Oriente, carico di speranze, ora frustrate e temendo per il suo destino, è più cupo degli altri.
Lui il Doge e suo Figlio ben li conosce e non riesce a capacitarsi del perché non hanno sfruttato a pieno il successo sul mare, accontentandosi di predare un ricco bottino.
Ed i giorni che seguono sono ancora più duri, se possibile.
Mentre le navi del Leone sono ormeggiate inattive davanti alla Città, il Guiscardo, avvicinando ulteriormente le macchine da guerra alle mura, lancia un poderoso attacco, tanto che Giorgio Paleologo è costretto ad una sortita che per poco non gli costa la vita. Successivamente il Normanno tenta un’ulteriore offensiva grazie ad una nuova torre che gli avrebbe permesso un assalto definitivo, ma anche in questo caso, la prontezza difensiva del Comandante bizantino glielo impedisce.
In questo clima i dissidi fra gli assediati sono all’ordine del giorno anche perché i Durazzesi avevano avuto la vittoria in pugno, sfumata per il comportamento ambiguo dei Veneziani.
I maggiori litigi sono ovviamente gli Italiani cioè fra Amalfitani e Veneziani e fra questi ultimi fra i partigiani ed i nemici del Doge. 
Non passa giorno a Durazzo che chiunque rimprovera a Domenico la sua amicizia con la famiglia di Silvo, il quale coi suoi marinai rimane inoperoso alla fonda in faccia alla Città assediata.
Cosa aspettano ?
Forse l’arrivo dell’esercito imperiale, che improvvisamente si materializza in un pomeriggio d’autunno, quando le colline alle spalle della Città si riempiono di una moltitudine di soldati.
Nel frattempo senza che nessuno se ne accorga, il comandante Paleologo raggiunge l’accampamento bizantino e si mette a disposizione di Alessio per l’ imminente battaglia. 

CAPITOLO V
Battaglia

Quella del 18 ottobre è una grande battaglia.
Anche questa volta tutti proprio tutti compreso Domenico sono sulle mura a guardare il proprio destino.
Roberto il Guiscardo fraziona il proprio esercito in tre tronconi; Alessio, suddivisa l’armata in falangi, si dispose similmente dirigendo personalmente il centro con il suo corpo personale d’ élite, la Guardia Variaga, fatta scendere da cavallo. 
Mentre il Comneno attacca alla testa delle sue truppe seguendo la riva del mare, un contingente di arcieri è posizionato dietro le linee dei Variaghi, che di tanto in tanto si aprono in modo da permettere alla frecce di colpire i Normanni e poi si richiudono a difesa degli arcieri stessi.
Allora il Guiscardo cerca di rimuovere i Vareghi dalla loro posizione con una carica di cavalleria, respinta però dagli arcieri bizantini.
Le stesse milizie scelte resistono ad un successivo attacco congiunto alle ali di centro e di sinistra da parte nemica, i cui soldati, presi dal panico, fuggono verso il mare, inseguiti dai Variaghi stessi.
Improvvisamente compare sul campo di battaglia una donna che poi si seppe essere Sichelgaita di Salerno, la terribile principessa guerriera Sposa del Guiscardo, la quale a cavallo con una lunga lancia raggiunge e tiene sotto scacco i Vareghi.
Costoro presi dalla foga dello scontro hanno dimenticato una delle regole fondamentali della strategia militare bizantina, ma non solo, cioè mai inseguire i fuggitivi, in quanto gli inseguitori stessi, tagliati fuori dal resto dell’ esercito, sono vulnerabili ad un attacco separato.
Il Guiscardo non perde l’occasione propizia ed invia i suoi fanti che infliggono pesanti perdite agli stanchi nemici, fiaccati dall’ inseguimento dei fuggiaschi. I Variaghi superstiti si riparono nel Santuario dell’Arcistratego Michele, che viene dato alle fiamme. Nel rogo forse periscono tutti.
Sebbene entrambi gli schieramenti avessero perso un intero fianco, il Condottiero normanno può ancora contare sulla cavalleria pesante, che, rimasta come riserva al di fuori della mischia, è lanciata contro Alessio al centro della sua armata con tale impeto da indurre i mercenari turchi alla diserzione.
Lo stesso Imperatore fugge ed il suo campo viene razziato ...
E la flotta veneziana che blocca il porto e su cui conta il Comneno ?
Anche in questo caso come pochi mesi prima, quando forse non sfruttò appieno la vittoria, la squadra della Serenissima tiene un comportamento ambiguo nel senso che durante lo svolgimento della battaglia, se non rimane del tutto passiva, impedita probabilmente dalle navi normanne fatte riscendere in mare dal Guiscardo , non coopera ad appoggiare le forze di terra, mentre si spingono verso il litorale per avvolgere alle spalle l’accampamento normanno, né soccorre i fuggiaschi cacciati in acqua dalla reazione del nemico.
Ai nemici vittoriosi non rimane altro che attendere la caduta della Città stessa …

CAPITOLO VI
Assedio e Caduta

Dalle mura tutti gli abitanti vedono in poche ore la disfatta bizantina, la fuga di Alessio col suo seguito, fra cui il Paleologo, la razzia dell’accampamento imperiale e l’immobilismo della flotta veneziana.
E così nel più grande scoramento gli assediati, privi del loro Comandante, si organizzano di per se stessi.
I Veneziani si riparano nella Rocca e scelgono liberamente quale loro guida proprio Domenico, essendo un autorevole Patrizio con un ragguardevole numero di servi.
Ormai si avvicina l’inverno coi suoi rigori quando una sera alla porta del Caravello, bussa un uomo avvolto da un lungo mantello.
E’ Domenico , il Figlio del Doge.
“Amico mio, sono passati tanti anni ! Come stai ? Cosa fai qui ? Come sei riuscito ad attraversare le linee normanne ?“
“Non preoccuparti … Fra pochi giorni le nostre navi faranno vela verso casa . Rimarranno pochi legni a vostra protezione e salvezza, quando il destino della Città sarà compiuto, poiché la sua sorte è di essere conquistata“
“Ed a noi cosa capiterà ?“
“I Normanni nei mesi a venire non hanno alcuna intenzione di morire sotto le mura. Durazzo cadrà come una mela matura a tempo debito”.
“E voi Veneziani ?“
“L’Imperatore qualche mese fa ha promesso grandi favori solo per il fatto di averlo soccorso, indipendentemente dall’esito della guerra. Anzi mio Padre dice che la presa della Città renderà ancora più inclini i Bizantini a fare larghe concessioni“
“Perché sei venuto , allora ?“
“Per dirti che un giorno ti cercheranno in virtù del ruolo che hai assunto fra i  coloni . Amico mio segui il tuo interesse … Il destino di Durazzo è ormai segnato e Venezia ha fatto quel che doveva …“
Il Silvo non aggiunge altro e fugge rapidamente col favore della notte.
E così avviene.
Pochi giorni dopo gli assediati vedono con sgomento la maggior parte dei legni del Leone far vela verso il mare aperto.
I Normanni invece si limitano ad esercitare un blando blocco terrestre.
E così trascorre l’inverno del 1081 nella Città senza speranza.
“Vorrei parlare col Comandante della Rocca, mi hanno detto che si chiama Domenico“
“E’ quello là , appoggiato alle mura“
“Domenico ?“
“Si ?“
“Chi è“
“Non importa, venga a fare due passi con me“
Così entrambi scendono dalle mura e camminano insieme nella via lastricata.
“Chi è lei ?“, ripete Domenico, “Cosa vuole ? Perché è qui ?“
“Non conta chi sia“, risponde lo Straniero.
“Sono venuto per proseguire il discorso di qualche mese fa col Figlio del Doge.
Poco distante da Durazzo, conosce la Chiesa di San Nicola a Petra. Domani sera, è più sicuro, mandi un suo servo. Potrà uscire e rientrare tranquillamente, la notte sarà buia. Le riporterà notizie e non avrà da pentirsi“
Prima che Domenico potesse replicare lo Straniero scende il viottolo di corsa e scompare.
“Guglielmo , Guglielmo , dove sei ?“.
E’ costui un barese, il più scaltro dei servitori del Caravello.
“Eccomi Padrone, cosa c’ è ?“
“Guglielmo, domani sera andrai fino alla Chiesa di San Nicola, ci saranno persone, ti diranno cose...“
“Padrone, penso di poter entrare ed uscire senza rischio, altrimenti non ci sarebbe nessun incontro“
“Nessun timore… Vedi comunque di chiudere con un solo colloquio. Non è prudente in questi momenti uscire ed entrare dalla Città“
E così è.
La notte seguente particolarmente buia copre le mosse del Barese che raggiunge senza difficoltà il luogo convenuto, ove sono già due persone.
Di loro parla solamente il più alto e robusto.
“Voi Veneziani siete di parola … Lei chi è ?“
“Sono di Bari, mi chiamo Guglielmo e sono il servitore più fidato di Domenico Caravello“
“Io sono Roberto, Signore dei Normanni, e questo è mio Fratello Guglielmo, Conte del Principato. Mi ascolti con attenzione e riferisca quanto le dirò… Ormai è stato tutto deciso. Venezia ha abbandonato Durazzo alla sua sorte. Per abbreviare i tempi dell’assedio, che ormai è troppo lungo ed ostacola le nostre successive operazioni militari fra queste montagne, sulla Laguna si confida che qualcuno fra suoi coloni favorisca la presa della Città e chi non meglio di Domenico, Patrizio e Comandante della Rocca ? Ovviamente il Doge, Silvo, non sa nulla e la caduta di Durazzo avverrà per iniziativa personale di un “traditore“ da noi lautamente ricompensato. E quale compenso migliore della bella Figlia di mio Fratello, qui presente, con la dote spettante nella Contea in Italia ? Anche la notte di domenica prossima sarà particolarmente buia. Appoggi delle scale contro le mura della Rocca in modo che si possa  entrare facilmente in Durazzo e faccia allontanare il suo Padrone e tutti quelli che Lui riterrà più opportuno dalla Città. Troverete sicuro asilo nel nostro accampamento. Ricordi al suo Padrone che questa è l’ occasione della sua vita. Si coglie una sola volta e mai più. Ovviamente su di Lui sarà il peso dell’ infame tradimento di Durazzo e quindi non potrà mai più tornare anche a Venezia. Il tempo sanerà le ferite …“
Così parla il Guiscardo e così viene fedelmente riferito a Domenico.
Mille pensieri attraversano la sua mente…
Non avrebbe avuto alcun vantaggio a non tradire Durazzo, già venduta dagli “alleati“ Veneziani, che non a caso si erano comportati in modo ambiguo durante tutta la campagna militare.
Se non avesse collaborato col Guiscardo, con tutto quello che sapeva, avrebbe messo a repentaglio la sua vita e quella dei suoi servi una volta entrati i Normanni in Città, ovviamente con la compiacenza di un altro “traditore“, che si sarebbe comunque trovato, conoscendo la debolezza del genere umano.
Infine anche se si fosse posto in salvo non gli sarebbe rimasto che ritornare povero in Laguna, avendo perso tutto in Durazzo, senza quindi nessuna prospettiva.
Ecco perché la notte di quella domenica il Barese posiziona come pattuito delle scale contro le mura della Rocca.
I Normanni sono già lì e rapidamente entrano nella Città che placidamente dorme.
Mentre Domenico, Guglielmo ed altri servitori sono condotti all’accampamento nemico, grida e fuochi si levano dalla tradita Durazzo …

Capitolo VII
Meridione

Quando Domenico coi suoi servitori tocca terra in Italia la sorte di Durazzo è ormai compiuta. Dopo tre giorni di combattimenti casa per casa la Città è conquistata. I Veneziani, che non riuscirono a riparare sulle navi, morirono per mano dei Bizantini, che li ritennero tutti traditori, o combattendo contro i Normanni oppure vennero presi prigionieri.
Come promesso, in Puglia con una fastosa cerimonia avviene subito il matrimonio del Caravello con la bella Figlia del Sannicandro, nozze frettolose senza i genitori, rimasti a Venezia per opportunità, ed a Durazzo per la campagna militare. Fra i commensali non passa sicuramente inosservata la presenza di un monaco, Guglielmo, futuro cronista delle gesta di Roberto il Guiscardo, che fisserà nei suoi versi anche questo sposalizio ad imperitura memoria.
Gli sposi raggiungono poi i possedimenti stabiliti in dote cioè vasti appezzamenti su di un altopiano boscoso, detto Calvello dall’aspetto del monte principale, ai limiti della Contea del Principato, in Cilento. Oltre alle terre, ove si pratica solamente pastorizia, sono concessi pure diversi villani e case, Domenico riservandosi per sé quella che forse pare la migliore dimora. Questa sistemazione non è minimamente paragonabile al palazzo della sua Famiglia sulla Giudecca od allo stabile, in cui abitava a Durazzo, con tutti gli agi derivanti dal suo rango.
Il Caravello non comprende come la Nipote del Guiscardo si adatti a vivere all’estremità rurale dei suoi domini , lontana da Dio e dagli uomini.
Le poche notizie che Domenico riesce ad avere del resto del mondo sono quelle che conosce, quando dopo viaggi difficoltosi e pericolosi raggiunge  saltuariamente Salerno.
E così i Veneziani poco dopo la caduta di Durazzo avevano ottenuto ampi privilegi commerciali in Oriente con la Crisobolla concessa personalmente dall’Imperatore Alessio. Dopo alterne vicende Bisanzio si era ripresa quanto precedentemente perso, favorita dalla dipartita del Guiscardo, morto non si sa come a Cefolonia. Il Doge Domenico era stato detronizzato e posto in convento in seguito ad una disastrosa sconfitta subita dai legni della Serenissima nelle acque di Corfù, poco prima della risolutiva morte del Guiscardo stesso. In quella stessa battaglia aveva perso la vita anche l’amico di una vita, Domenico, divenuto Ammiraglio, vittima della sua ambizione.
Al Caravello nonostante tutto era andata meglio…
Era sopravvissuto a momenti difficili e si era sposato con una Altavilla, che poco prima di morire gli aveva lasciato un figlio Goffredo insieme a terre e servi, anche se sulle montagne del Cilento, ove la Gente aveva preso a chiamarli “li Piroti“, provenendo tutti da Durazzo in Epiro.
Ma il Fato doveva ancora riservargli delle sorprese…
Un giorno al suo casale giunge senza preavviso un messaggero finemente vestito.
“Cerco Domenico, Signore di Calvello, e suo Figlio Goffredo“.
“Siamo noi, anche se non sembra, ma in campagna è così !“
“Mi manda Ruggero, figlio del Guiscardo, cugino del vostro Goffredo, nuovo nostro Signore. E’ arrivato il tempo di terminare la conquista della Sicilia e per questa impresa ha bisogno di tutti, a maggior ragione dei Parenti stretti come Voi. Lascerete queste terre inospitali. Di loro manterrete solo la denominazione Calvello, che sarà il vostro nuovo cognome, mi è stato detto per ragioni di opportunità. Non so altro su questo… Mi seguirete fino a Palermo ove avrete un palazzo nel Cassero e terre e servi nelle campagne di Vicari e Fitalia. Goffredo, ormai nobile normanno, sarà ammesso a Corte e seguirà il proprio destino“.
E così accade…
Gli Altavilla conquistarono tutta l’Isola, Goffredo divenne Siniscalco e suo Figlio Andrea porse la corona all’ Arcivescovo di Palermo, quando un altro Ruggero divenne il primo Re di Sicilia.
Ed i Caravello in Laguna ?
Restaurata la Chiesa di San Trovaso danneggiata da un incendio, cominciarono una lenta ascesa politica, che sarebbe culminata nel Quattrocento con Marino.
Tuttavia in Sicilia già un secolo prima i Calvello, discendenti del “traditore“ Domenico Caravello, erano divenuti una delle Famiglie preminenti di Palermo.
Dalla metà dell’ XI° secolo tanta acqua era passata sotto i ponti di Venezia, ma quel Domenico aveva davvero colto il proprio destino… 
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© Racconto di Pietro Luigi Garavelli (pietro.luigi.garavelli@maggioreosp.novara.it)

martedì 17 maggio 2011

Io e Teodolinda

Sono Linda e osservo gli ambienti che compongono la mia vita, dall'infanzia alla maturità ma cerco un luogo preciso in cui ho trascorso mesi davvero affascinanti. 
Sto parlando dell'Alto Medioevo, periodo in cui tra disordini e invasioni, il mondo si è davvero modificato ed io sto studiando e scavando nella chiesa che sarebbe diventata oggetto della mia tesi di laurea. 
Dal pianerottolo in cui mi trovo alla stanza che ho intenzione di perlustrare mi divide una porta. 
Cerco la chiave, ne ho molte, la provo ed apro. 
Qui c'è una forte luce al neon che mi ha aiutato a vedere per entrare ma mi accorgo che mi sta accogliendo un nuovo mondo, fatto di buio e di un odore forte d'umido. 
Non ho difficoltà ad orientarmi: sono entrata in uno scavo archeologico che conosco bene. 
So come avvicinarmi alla strada romana da me tempo fa individuata, ma non posso riconoscere chi mi precede spedito finché non s'illumina il cielo che prima non c'era. 
Sono piombata indietro di secoli, nulla mi è più noto; non ci sono scheletri né cocci, né colleghi, né orari. 
Sto nel sottosuolo della basilica di Sant'Agata dei Goti a Roma per completare le ricerche che mi porteranno ad ultimare la mia tesi di laurea in Archeologia Cristiana. 
Sto studiando il culto della martire catanese Sant'Agata a Roma entro l'anno Mille; questo è l'argomento di cui ho intenzione di dibattere tra pochi mesi all'Università. 
Mi sono rimaste da prendere poche misure da inserire in una rappresentazione grafica da unire alla mia argomentazione scritta insieme alle fotografie ed alle fotocopie fin qui raccolte. 
In questo luogo non si scava più, quello che c'era da sapere si è scoperto e va semmai interpretato meglio. 
Rifletto ora su quello che era scritto nel mosaico del catino absidale della chiesa, crollato nel 1589. 
fla(vius) ricimer v(ir) i(nlustris) mag(ister) utriusq(ue) militiae 
PATRICIUS ET EX CONS(ULIBUS) ORD(lNARIIS) PRO VOTO SUO ADORNAVIT (Flavio Ricimero, uomo illustre, capo di tutte le forze militari, patrizio e tra i consoli in carica, ornò per esaudire il proprio voto). 
Vi si poteva dunque leggere il nome di colui il quale fece decorare la sola abside o tutto l'interno di Sant'Agata dei Goti, Flavio Ricimero, il cui cursus honorum (carriera politica) permette anche di circoscrivere nel tempo almeno l'epoca della decorazione. 
Dopo il nome, appunto flavius ricimerus, il titolo onorifico vir inlustris, la promozione a magister (militum) utriusque militiae nel 456, il titolo di patricius ottenuto nel 457, si fa menzione della carica consolare, ex consulibus ordinariis, conseguita nel 459. 
All'espressione VOTO SUO, rifletto è difficile dare un senso inequivocabile: può ricordare una vittoria militare, un momento politico favorevole, il matrimonio con Alipia, figlia di Antemio, non è possibile, insomma, utilizzare tale dato per una più precisa collocazione temporale. 
Non è in fondo questo il problema, potendo almeno collocare tra 459 e 470 la decorazione absidale, ma esiste l'incertezza sulla coincidenza o meno della decorazione con l'edificazione della chiesa romana, se cioè si debba a Ricimero anche quest'ultima. 
Per mia fortuna, la chiesa, che esiste tuttora a Roma in Via Mazzarino, vicina a Via Nazionale, malgrado i notevoli rimaneggiamenti ed i restauri susseguitisi nel volgere dei secoli, conserva molte parti architettoniche originali, anzi è nella sua ossatura essenziale delle pareti esterne e delle arcate interne, ancora la chiesa eretta nel quinto secolo. 
Ora mi trovo ad un livello di oltre due metri sotto le navate della chiesa, dove si trovano muri paralleli in opera listata formati da mattoni e strati di malta composta di calce bianca e pozzolana, molto compatta, di grana sottile non stigliata, e sono i muri di fondazione della navata centrale della chiesa su cui posano anche i due attuali colonnati. 
Nel punto che ho indicato con a in pianta, ad una distanza di quasi tre metri dal muro di fondazione della navata segnata con bc, è visibile il cervello di un arco, probabilmente di fondazione. 
La parete da me indicata bd del muro a Sud presenta, a circa settanta/ottanta centimetri dal suolo attuale, trentadue incassi (forse per ponteggi) a circa trentasette/quaranta centimetri di intervallo lungo l'intera parete. 
Un altro muro, be parallelo ai primi, distante da bd circa tre metri e mezzo con caratteristiche costruttive analoghe ad essi ed evidentemente muro di fondazione della navatella destra, presenta tre finestre ed una porta murate. 
Queste finestre furono aperte, in epoca moderna, a distanza irregolare probabilmente per dar luce agli ambienti adattati a cantina ed attualmente sono ricoperte di intonaco rustico. La porta è stata chiusa con muratura eseguita con materiale di risulta vario (mattoni spezzati, frammenti di anforacee, pietre) tenuto insieme da malta grossolana.Il fatto di aver esaminato dettagliatamente ciò che resta dell'edificio originale, mi ha permesso di datare la chiesa approssimativamente sulla base dei confronti con le strutture murarie di altri edifici cui la datazione è sicura. Tutto sembra confermare la coincidenza della data della dedicazione del mosaico di Ricimero con quella dell'edificazione della basilica, metà del quinto secolo, infatti le chiese romane che offrono maggiori punti di contatto con Sant'Agata dei Goti risalgono a quell'epoca.
In conclusione, l'esame delle murature ed i metodi costruttivi utilizzati, non sembra contrastare con l'ipotesi secondo la quale l'erezione della basilica sia avvenuta tra il 459 ed il 470, ambito in cui è databile l'epigrafe di Ricimero posta nel mosaico absidale.
Ciò che mi sembra altamente improbabile è che la chiesa di Ricimero fosse già in origine dedicata a Sant'Agata e così mi suggerisce a suo modo la giovane ariana che vedo accanto a me. 
La connessione, infatti, dell'edificio con la martire catanese, non si rileva né dal testo dell'epigrafe, né dall'iconografia del mosaico che raffigurava il gruppo dei dodici Apostoli con, presumibilmente, al centro il Cristo. 
Una tavola ricostruttiva del Ciampini rende chiaramente l'idea dell'insieme, tutti i personaggi avevano sotto di sé la dicitura del proprio nome ed erano, nell'ordine, s. jacobus alphei, s. simon zelotes, S. JACOBUS, S. IUDAS JACOBI, S. PHILIPPUS, S. PAOLUS, S. PETRUS, S. ANDREAS, S. IOHANNES, S. THOMAS, S. MATHAEAUS, S. BARTHOLOMEAUS. 
Al centro il Cristo, salus totius generis humani (salvezza di tutta umanità), nimbato, sedeva sul globo reggendo con la mano sinistra il libro aperto e benedicendo con la destra.
Apparentemente, il mosaico non aveva in sé neppure elementi iconografici che testimoniassero inequivocabilmente il culto ariano che, prima della riconsacrazione cattolica di S. Gregorio Magno, sicuramente in questa chiesa si era svolto. 
Ma io, Teodolinda, allora c'ero, ariana e figlia di Ariani col nome così scelto perché importante, presente in chiesa all'epoca della cacciata di noi ariani, certo diversi dai Romani intorno a noi. 
La notizia della riconsacrazione sì legge nei dialoghi dello stesso papa, scritti presumibilmente nel 594, e vi viene riferita come accaduta ante biennium, dunque nel 592. 
Così riporto io, Linda, nella mia tesi di laurea.
Nel terzo libro dei Dialoghi, appunto, papa Gregorio I narra particolareggiatamente la lustrazione della arrianorum ecclesia in regione urbis HUIUS quae SUBURA DICITUR (la chiesa degli Ariani nella regione di questa città chiamata Suburra), che, dopo essere rimasta chiusa fino ad un biennio prima, placuit ut in fide catholica dedicari debuisset (si volle che fosse dedicata alla fede cattolica) con l'introduzione delle reliquie beati sebastiani et sanctae agathae martyrum (dei martiri beato Sebastiano e sant'Agata) 
Ebbene io, l'ariana Teodolinda, posso confermare che, dopo l'ingresso solenne nella chiesa dei preti cattolici, durante lo svolgimento dei riti di riconsacrazione, quidam ex his qui extra SACRARIUM STABAT PORCUM SUBITO INTRA SUOS PEDES HUC ILLUCQUE discurrere SENSERUNT. (alcuni di quelli che stavano fuori dal sacrario improvvisamente sentirono un maiale correre qua e là tra i propri piedi). 
L'animale immondo, la cui presenza è stata avvertita da tutti i presenti, si è diretto poi alla porta della chiesa permettendo la conclusione della celebrazione. 
Papa Gregorio I così commenta nel suo testo l'accaduto: idcirco DIVINA PIETAS OBSTENDIT, UT CUNCTIS PATESCERET QUIA DE LOCO EODEM immundus habitator EXIRET. (relativamente a ciò la divina pietà mostra, perché sia chiaro a tutti, che dallo stesso luogo uscisse l'immondo abitatore). 
A questo episodio "demoniaco" ha fatto seguito un altro la notte stessa. 
Io ero lì ancora coi miei, magari un po' celata ma presente e preoccupata anche perché il mio nome, Teodolinda, non lascia dubbi sulla mia nazionalità. 
Si è sentito infatti sui tetti un gravior sonitus come se omnis illa ecclesia a fundamentis FUISSET eversa (un pesante suono come se tutta quella chiesa fosse abbattuta dalle fondamenta) che gradatamente si è affievolito fino a scomparire del tutto. 
Insomma, il "demone dell'eresia", costretto dalla purificazione del luogo ad allontanarsi, ha permesso l'inizio di nuovi prodigi, stavolta decisamente fausti: una nube profumata scesa sull'altare, le lampade della chiesa, regolarmente spente, che si sono accese e riaccese malgrado il custode sia tornato a spegnerle, segno, quest'ultimo, ha scritto il papa, che locus ille a tenebris ad lucem venisset (quel luogo tornò dalle tenebre alla luce). 
Io, Teodolinda, ricordo tutto questo ma non so davvero giustificarlo. 
La riconsacrazione al culto cattolico della chiesa, testimoniata anche da una lettera dello stesso Gregorio I detto Magno e dal Libar Pontificalis (libro in cui sono indicate tutte le opere compiute dai primi papi) non fu un fenomeno isolato, anzi fece parte di un piano di "energica opera di cancellazione delle tracce eretiche sul suolo di Roma". 
Questo sa bene la contemporanea Linda. Quando a Roma papa Gregorio Magno ha intrapreso la stessa opera di riconciliazione e conseguente ridedicazione effettuata già a Ravenna dal vescovo cattolico Agnello dopo la cacciata del re ariano Teodorico, ha applicato esattamente lo stesso principio: porre la chiesa sotto la protezione del Santo "giusto", che avesse, cioè, chiari riferimenti alla battaglia vinta contro l'arianesimo. 
Infatti San Severino, l'Apostolo del Nerico, fu prescelto a tutela della ecclesia iuxta domum merulana (la chiesa presso la casa merulana) che la superstitio (eresia) ariana da lungo tempo amministrava. San Sebastiano, soldato e "considerato tra i sette difensori della Chiesa nella catalogaziene di Gregorio Magno" accanto a Sant'Agata, difende la rinnovata ortodossia della chiesa di Ricimero.
A questo punto è necessario che io, Linda, l'attuale laureanda, mi porga alcune domande: è possibile che, con simili premesse, la scelta di Sant'Agata sia stata dettata da motivazioni tanto dissimili da quelle che avevano fatto scegliere, a Ravenna e a Roma, dei Santi così particolari? Che, cioè, Sant'Agata proteggesse vecclesia gothorum senza un titolo preciso, ma solo per la popolarità del suo culto che s'era propagato a causa delle vaste proprietà della Chiesa in Sicilia? Oppure che Sant'Agata fosse già in origine il nome della chiesa suburana, sottintendendo, quindi, una venerazione inspiegabile dei Goti ariani per essa?
Papa Gregorio I, così attento al problema scottante dell’arianesimo, non avrebbe provveduto anche qui, a maggior ragione, a cambiare l'intitolazione? 
Gli studiosi che si sono trovati a commentare le ragioni di tale dedicazione, hanno sempre espresso molte riserve a riguardo; mentre gli scrittori di opere divulgative su questa santa hanno sempre portato l'esempio di Sant'Agata dei Goti come testimonianza della grande venerazione dei Goti per la martire catanese, senza darne alcuna spiegazione. 
Il parere di chi sta svolgendo la propria tesi di laurea (nel 1998) dal titolo Il culto di Sant'Agata a Roma entro l'anno mille, cioè io, Linda, è che invece Sant'Agata fu il nome scelto da Gregorio Magno ad hoc per la chiesa dei Goti ormai purificata, senza costituire, quindi, un'eccezione nel gruppo omogeneo dei Santi, nemici dei Goti ariani, qui citati. 
La ragione di questa scelta precisa può essere ricercata in uno dei più antichi miracoli che, scrive il Bollando, i Catanesi meritis sanctae agathae ADSCRIBUNT (\ Catenesi attribuiscono alle doti di Sant'Agata). 
Una silloge di miracoli attribuiti a tale santa, presentata dagli Acta Sanctorum a coronamento della trattazione sulla questa Sant'Agata, inizia infatti l'ottavo capitolo, dal titolo catana per sanctam agatham contram HOSTES DEFENSA (Catania difesa dai nemici grazie a Sant'Agata), con la narrazione della liberazione dei Goti della città di Catania nell'anno 535). 
prima certe sicularum urbium jugo est gothico liberata anno christi 535; ita procopius, lib. belli GOTHICI (sicuramente per prima tra le città siciliane fu liberata dalla dominazione gotica nell'anno di Cristo 535; così scrive Procopio nel testo La Guerra Gotica). 
Il dato storico si riferisce agli inizi della cosiddetta guerra greco/gotica, cioè la guerra sostenuta dalle truppe dell'Impero Romano d'Oriente, comandate in questa prima fase da Belisario, durante il regno di Giustiniano per sottrarre l'Italia dal dominio dei Goti. 
Il primo obiettivo di Belisario fu l'occupazione della Sicilia per procedere poi all'avanzata nell'Italia peninsulare dopo aver attraversato lo stretto di Messina. La resa immediata di Catania, prima città attaccata dalla armata romana, è l'evento cui si riferisce il Bollando quando afferma: hanc porro suae urbis ante reliquas LIBERATIONEM MERITIS SANCTAE AGATHAE CATANENSES ADSCRIBUNT (i Catanesi attribuiscono alle doti di sant'Agata la liberazione della sua città prima delle altre). 
Purtroppo la fonte da cui è tratta la notizia dell'attribuzione ai meriti della Santa di questa liberazione di Catania dai Goti non è indicata con precisione. Ma certo, anche se si trattasse di semplice vox populi, è riportata con tanta sicurezza da poter essere presa in seria considerazione. Se così fosse, al potere taumaturgico di Sant'Agata verrebbe attribuita non solo la liberazione della Patria dai nemici, ma da nemici ben definiti: i Goti, del cui tradizionale arianesimo ci informa lo stesso Procopio. 
Questo certo sarebbe un buon titolo, abbinato alla diffusione generale del suo culto, perché proprio Sant'Agata venisse scelta da Gregorio Magno a difesa della vittoria sull'arianesimo che fu la restituzione al culto cattolico della basilica suburana, anche perché, accettata la sua qualifica di Santa "che si batte contro gli eretici", il nome di Agata accanto a quelli di Martino, Severino, Eusebio, Teodoro e tutti gli altri santi soldati non sarebbe affatto una inesplicabile "intrusione", anzi confermerebbe la scelta oculata dei nuovi patroni per le ri-dedicazioni di chiese già ariane che ci si aspetta senz'altro da un Padre della Chiesa della statura di S. Gregorio Magno. 
Su nome originario di Sant'Agata dei Goti sono propensa ad accettare l'ipotesi del Marucchi, secondo il quale la chiesa sarebbe stata dedicata al Salvatore, sia per l'iconografia del mosaico absidale che per analogia con l'attuale Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna che aveva ricevuto da Teodorico proprio questa intitolazione. 
L'analogia con la chiesa ariana di Ravenna si fa ancora più stringente se si accoglie l'ipotesi del professor Cecchelli che immagina proprio in Sant'Agata la residenza a Roma del Vescovo goto ariano, l'esistenza del quale si ricava da in documento del sesto secolo che testimonia il viaggio a Roma, sullo scorcio del secolo precedente, di un tale che reclamava giustizia al Papa dei Cattolici ed al Vescovo degli Ariani per una sua questione privata. 
In questo viaggio c'era mio padre, sussurra la giovane ariana Teodolinda, ma egli non trovò alcuna soluzione al suo problema. L'ha raccontato a casa per anni e per questo, per quanto femmina, lo so anche io. 
Lo studioso Cecchelli notava come la posizione geografica e quella topografica della chiesa di Sant'Agata dei Goti fossero favorevoli per la postazione più importante dell'arianesimo romano: la zona che occupa la chiesa era la stessa che ospitava il quartier generale delle milizie barbariche, la maggioranza delle quali professava certo la fede ariana. 
Se fosse poi esatta l'identificazione dell'oratorio del Monte della Giustizia con Sant'Agata in Esquilino, si avrebbe un'ulteriore conferma del senso ben preciso della intitolazione a questa Santa di chiese con un passato ariano. 
Anche l'oratorio sorgeva in una zona di abituale residenza delle milizie barbare ed "in cui si manifestò più vivo lo arianesimo", qui ho abitato pure io, Teodolinda, coi miei, e anche esso aveva nell'abside la raffigurazione di Cristo tra gli Apostoli. 
Se è vero dunque, che l'oratorio è Sant'Agata in Esquilino, il nome gli venne certo dato non dai suoi costruttori ariani ma da chi lo riconsacrò al culto cattolico, probabilmente del sesto secolo. 
Ecco perché io, Teodolinda, ariana dalla nascita, sto suggerendo come posso a te, Linda, cattolica nata centinaia d'anni dopo di me, quello che qui è davvero successo. 
Sarà perché portiamo un nome similare, sarà perché lo specchio dice che ci somigliamo, sarà perché simile è il nostro carattere.
Chissà.
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Racconto partecipante alla quinta edizione di © Philobiblon (2010)