martedì 21 dicembre 2010

DAHUD

a Mimmo

Il vento continua impietoso a scaricare acqua in faccia ai marinai: un misto di mare, pioggia e lacrime degli stessi per la fatica immane cui sono sottoposti. Si sa, quelle tratte non sono mai state oggetto di sicuro rifugio da parte delle imbarcazioni.
Fino a qualche attimo prima, la costa era a portata di sguardo. Ora non si intravede più neanche una luce lontana. L’equipaggio è sconsolato e privo di qualsiasi inventiva è il capitano, che si crogiola nel suo dolore urlando sul ponte frasi incomprensibili ai pochi che ancora stanno ad ascoltarlo.
Non è difficile immaginare cosa sta per succedere quando le stive si riempiono all’inverosimile nel giro di pochi istanti. Cessano le urla, incalzano le preghiere, e qualcuno si mette a cantare.
Oh cielo! Chi diamine si mette a cantare con voce talmente soave andando incontro a siffatta ingloriosa fine? Gaudio celestiale! L’armonia che proviene dall’inumana voce sembra condurre dritti al paradiso. O all’inferno: forse è il demonio che li aspetta tutti!
È di sicuro una voce di donna, il capitano non ha dubbi; qualcun altro ha bevuto bourbon e sente il medesimo cristallino canto?
“Ho fatto uno strano sogno” disse, svegliandosi di soprassalto.
La vecchia signora lo guardò bonariamente, poi gli chiese di raccontarle.
Egli si trovava a largo delle coste bretoni, col suo equipaggio, quando la tempesta li aveva costretti a manovre d’emergenza per non distruggere gli alberi: avevano così perduto la rotta e si erano incagliati in un’invisibile scogliera che aveva affondato loro la nave. In quel momento, mentre erano tutti prossimi alla morte, gli angeli del paradiso avevano loro promesso la vita eterna accogliendoli con meravigliosi cori celesti.
L’anziana donna si fece seria; tossì, si passò una mano tra i capelli, e disse: “Non devi per nessun motivo intraprendere questo viaggio. Vedi, quello che ti è apparso in sogno, è un monito del destino, e guai a chi osa non prestargli ascolto. Il canto che tu hai indubbiamente sentito era quello di una o più sirene, che vi hanno trascinato con loro negli inferi. Devi impedire che questa partenza avvenga” sentenziò infine.
“Gli uomini hanno una famiglia da mantenere, il viaggio non comporta alcun pericolo conosciuto, e non posso ritirarmi dal comando della nave in virtù di un sogno. Non hai neanche idea di quanti anni siano che navigo i mari e gli oceani, e l’avvertimento di stare attento alle sirene è lontano dalle mie preoccupazioni. Grazie dei tuoi saggi consigli, ma un sogno è solo un sogno. E, che Dio ce la mandi buona, stasera la nave salperà. E speriamo che le sirene siano almeno di bell’aspetto, così da risultare cosa gradita per i miei uomini”.
Bevve la sua acqua, o qualunque cosa fosse il liquido all’interno del bicchiere nel suo comodino, e congedò la donna che aveva iniziato a mormorare qualcosa tra sé.
La navigazione procedeva tranquilla: non vi era nessuna perturbazione atmosferica, la visibilità dell’orizzonte era discreta, il moto ondoso non particolarmente vivace. Il cuoco annunciò che la cena era pronta e ci recammo tutti a tavola. Io avevo tutte le intenzioni di mangiare il più possibile, poiché, si sa, durante una navigazione si mangia bene solo i primi giorni: poi diventa tutto scatolame e conserve varie…
A un certo punto ci dovette sembrare che si fosse più buio del solito, perché il comandante bestemmiò e tutti eravamo d’accordo mentre diceva che c’è la vita eterna per starsene in penombra. Tuttavia, nessuno diede a ciò molta importanza, e il pasto proseguì, ignari di quanto stesse invece accadendo di fuori.
Il primo di noi che decise di andare sul ponte per respirare a pieni polmoni qualche zaffata di tabacco, chiamò urlando il capitano, scongiurandolo di accorrere tempestivamente.
Ci ritrovammo sperduti non si sa dove; la bussola non funzionava più, attorno a noi erano solo tenebre, e il vento sembrava non fosse mai passato da quelle parti, tanto che anche i capelli più lunghi restavano immobili, come i nostri pensieri nell’accorgersi dell’assurdità dell’avvenimento.
“Tutto nella norma!” esclamò il capitano. “Stiamo andando nella giusta direzione. Per giungere a destinazione, bisogna percorrere una tratta in cui il sole non arriva, e a causa dei golfi vicini, le correnti si annullano a vicenda e sembra quasi non tiri un soffio di vento. Ricordo bene che da ragazzo, le prime volte che viaggiavo e passavo di qui, il terrore mi attanagliava, e capisco se qualcuno di voi abbia avuto un attimo di sbandamento: direi che è alquanto normale. Ma non preoccupatevi: tra qualche ora lasceremo questa desolazione e torneremo a panorami a voi più familiari.”
Non so in quanti di noi dubitarono delle sue parole. Non che fosse un equipaggio di gente inesperta, ma se lui diceva così ne sapeva certamente più di tutti noi. Qualcuno titubò nel sentirlo raccomandare prudenza ai mozzi nello scrutare con la massima attenzione ogni lato della nave per evitare collisioni con ostacoli o altre imbarcazioni: ma in quella notte scura come la pece era anche comprensibile. Ordinò di procedere a velocità regolare, e si ritirò.
Io però restai immobile sul cassero, come fossi il nostromo. Non potevo capacitarmi del fatto che non ce ne avesse parlato prima. Se le cose stavano realmente così, perché non aveva rassicurato l’equipaggio in un momento antecedente a quello in cui tutti saremmo giustamente caduti in preda allo sconforto per l’immagine che si presentava ai nostri occhi? Decisi che era una mossa dettata dall’esigenza di non seminare il panico prima che ci si potesse rendere effettivamente conto di cosa avrebbe inteso nel suo metterci eventualmente in guardia, quindi scesi in coperta e il sonno fu padrone di me.
Non passò molto tempo prima che i sensi mi imponessero di svegliarmi. Lì per lì feci fatica a capire perché mi fossi destato di soprassalto, poi mi accorsi del rumore che sentivo in sottofondo. Un lamento. Qualcuno che chiedeva aiuto, pensai.
Ancora semi-addormentato, mi recai sul ponte come in trance, cercando di raggiungere quella voce che cominciavo a pensare esistesse solo nelle mie orecchie. Quand’ecco, nell’immobile incresparsi del mare mentre la nave procedeva regolare, mi sembrò che le onde tornassero indietro, come se avessero trovato un ostacolo. Le parole mi risultavano incomprensibili, ma ora la voce era chiara, nitida, distinta.
Il mio urlo disumano richiamò il capitano in una manciata di secondi. La nave si arrestò, probabilmente a seguito di un suo ordine. Le onde continuavano a sbatterci contro. Era chiaro: coperto alla nostra visuale, qualcosa provocava quelle onde che venivano a infrangersi contro la nostra chiglia.
Non si poteva procedere. Se eravamo in prossimità di una costa, era ragionevole pensare che fossimo prossimi a una collisione o comunque all’incaglio. La pessima visibilità non lasciava spazio ad altre opzioni: bisognava essere sicuri di dove ci trovassimo. L’aria era leggera, pulita, eppure non sapevamo se fossimo avvolti dalla nebbia o soltanto dal buio.
Non c’era altro da fare: occorreva calare una scialuppa, e fare un giro di perlustrazione, prima d‘incorrere in problematiche molto serie, considerato anche che – nonostante quanto dicesse il capitano – io restavo convinto che nessuno avesse la più pallida idea di dove ci trovassimo.
Si decise all’unanimità, con esclusione del mio parere, che io presidiassi la spedizione, visto che m’ero accorto del rilevante particolare del ritorno delle onde. Ad accompagnarmi nel mio fortunato premio di merito, i due mozzi che invece non si erano ravveduti di nulla, come una sorta di punizione che rendeva il mio premio di difficile comprensione.
Mi fu affidata una lanterna, la scialuppa fu calata, e ci ritrovammo in mezzo a quella fitta notte.
La mia testa mi suggeriva che doveva essere all’incirca mezzogiorno.
Nel silenzio tombale cui eravamo avvolti, un suono ci colpì, melodioso. Era la voce di una fanciulla che intonava un triste canto, ne ero certo stavolta. D’improvviso, la scialuppa urtò qualcosa e ci ritrovammo tutti e tre in mare, ma nessuno di noi ebbe la forza, o la voglia, di urlare e richiamare l’attenzione della nave: il canto era troppo piacevole da interrompere.
Mentre la nostra piccola imbarcazione si eclissava dalla nostra vista, io e i miei due malcapitati compagni ci ritrovammo seduti su quello che sembrava uno scoglio, ma non lo era. Sembrava più il merlo di un castello, tanto erano regolari gli intervalli di roccia su cui ci adagiammo. Ed ecco, bella come una Venere, si presentò ai nostri occhi una figura di donna dal corpo perfetto, le labbra sottili e armoniose, e un raggio di luce ci sembrò l’accompagnasse nella sua apparizione. Si avvicinò a noi, e con voce rassicurante iniziò a parlarci: “Giovani esploratori del mare e della vita, mi presento a voi. Abito questa terra da tempo immemore. Anni fa ero una giovane fanciulla che tutti amavano. Mio padre regnava sulle popolazioni che qui abitavano, con sapienza e magnanimità. Ma un giorno, a causa dell’invidia di una giovane donna invaghitasi di mio padre, io venni accusata dei più turpi sotterfugi perché, fu detto, volevo impossessarmi del trono del mio amato genitore. Questi, oscurato dalla delusione e da un sortilegio effettuato dalla mia antagonista, volle credere a quell’estranea e condannò me, la sua adorata figlia, nelle segrete, a pane e acqua. Il mio dolore fu ineguagliabile, e mai gli dei assistettero a scena più pietosa della mia che, col cuore infranto, giorno dopo giorno cantavo, supplicando il mio amato padre di tornare in sé, e verificare le accuse che mi erano state mosse. Gli dei s’impietosirono e, mossi a compassione, inviarono nella nostra bella isola un giovane straniero, il quale, seguendo il mio canto, giunse alla mia prigione sotterranea. Venuto a conoscenza della mia triste storia, decise di liberarmi; ma, senza nessuna voglia di vendicarmi per il trattamento subito, pregai il ragazzo di non fare del male al re, e che se era il Fato ad aver deciso che quella donna maligna dovesse stare accanto a lui, allora che il destino si compisse. Decise quindi di portarmi nella terra che abitava lui, e insieme montammo a cavallo, ma dovete sapere una cosa. La città  sulla quale ora sedete, era edificata al di sotto del livello del mare. I mercanti e gli stranieri potevano accedervi solo una volta a settimana, quando mio padre apriva le dighe che ci proteggevano dalle acque dell’oceano; va da sé che con la stessa frequenza era concesso uscire, giacché chi si fosse trattenuto sull’isola aldilà della bassa marea, avrebbe dovuto aspettare la successiva apertura, ovvero trascorsa una settimana. Ora, a causa della mia situazione di prigioniera, era impossibile sperare di restare nascosti per così tanto tempo e fuggire indisturbati durante l’apertura ordinaria: bisognava rischiare e lasciare immediatamente questo luogo che tanto amavo. Per farlo, occorreva venire in possesso delle chiavi delle dighe, che solo il mio amato padre possedeva. Non fu difficile per me presentarmi dalla mia vecchia nutrice, spiegarle la situazione e farmi accompagnare nella camera del re; quindi afferrai le chiavi, e tornai di corsa dal mio salvatore. Ma l’aiuto degli dei era stato effimero: difatti, una volta giunti alle porte, ci rendemmo conto che il livello del mare era troppo alto per sperare di fuggire. Ma le avversità non finivano qui.
La perfida donna che aveva ammaliato mio padre, vedendomi allontanarmi a cavallo dal castello, mi aveva seguito, e ora si trovava di fronte a me. Io e il mio giovane cavaliere spediti ci allontanammo, ma ahimè! Stupidamente avevo lasciato le chiavi nella toppa della serratura. Allora lei, incurante dei pericoli a cui esponeva il nostro regno, come per punirmi e farmi annegare, girò rapidamente la chiave e le dighe si aprirono; e subito litri e litri di acqua marina invasero le nostre strade e le nostre case, sommergendole. Tornata a castello, informai mio padre dell’accaduto, il quale, senza pensarci due volte, mi caricò sul suo cavallo e veloci fuggimmo verso la costa, abbandonando colui che mi aveva sottratto alla prigionia ma anche tutto il nostro popolo a un evidente destino. Giunti sul punto più alto dell’isola, una voce parlò a mio padre, e ne ricordo ancora la demoniaca intensità. Gli disse che io ero stata la causa della distruzione del suo regno, e che il demonio in persona s’era impossessato della mia anima. Lo ammonì infine che un sacrificio gli era richiesto, se voleva salvarsi: doveva liberare il mondo dal male, e quindi da me. Ancora una volta il mio amato padre, senza curarsi della verità, mi afferrò tra le sue braccia e mi scaraventò al di sotto della scogliera, per purificare la sua isola dal male che vi aveva dominato. Ma il dio delle acque, reso edotto degli avvenimenti, volle intervenire. A causa della mia abnegazione nei confronti di mio padre, e dei sentimenti puri che erano vissuti in me, mi donò la vita eterna tramutandomi in sirena e ponendomi a custodia di questo tratto di oceano e della nostra cara isola ormai sommersa; ma non ci furono preghiere che lo fecero desistere dal suo intento di punire colui che mi aveva condannato a morte. Pare che anche a lui sia stata donata l’immortalità, ma non come una sorta di premio: si racconta che il dolore lo accompagnerà per l’eternità e mai il suo senso di colpa avrà termine. Non so in che forma di essere vivente o non vivente sia stato mutato, se in pianta o in scoglio, in animale o in statua; sta di fatto che per sempre conserverà la su coscienza e il ricordo di quei tristi avvenimenti. Per questo voi mi sentite sempre cantare: spero che la mia voce possa giungere al mio amato padre, e che lui sappia che io l’ho perdonato e che passerò la vita a fargli compagnia.”
Tacque. Nessuno di noi era in grado di proferire parola.
Allora continuò: “E voi, perché mai vi trovate a passare da queste parti fuori da ogni rotta? È forse finita per incagliarsi la vostra nave? Io posso aiutarvi se così fosse: basterebbe che mi portiate vicino a essa, e mi inabisserò a liberarla dagli ostacoli che la trattengono, cosicché possiate riprendere la rotta.”
Mentre riflettevamo sul fatto che non fossimo sicuri di ritrovare la strada, anche perché il racconto ci avevo parecchio disorientati e non sapevamo con certezza quanto ci eravamo spostati dal punto di partenza, vedemmo la nostra scialuppa legata accanto a noi; eppure eravamo tutti e tre sicuri di averla vista inabissarsi… Non vi era altra soluzione, per cui facemmo capire alla stupenda creatura di seguirci, e ci rimettemmo a remare.
Lei ci anticipava, come se ci guidasse verso il posto dove dovevamo condurla noi, e noi restammo in silenzio senza scambiarci neanche uno sguardo.
Dopo un certo lasso di tempo che non saprei definire, giungemmo alla nostra nave. Non si sentiva battere ciglio a bordo, e pensammo di essere mancati troppo, tanto che qualcuno avesse calato una seconda scialuppa per venirci a cercare. Ma le scialuppe erano tutte al loro posto, e l’atmosfera divenne surreale.
“Capitano!” chiamai, ma nessuno rispose.
Nel silenzio più spettrale che mai ebbi sentito, vidi alcuni membri dell’equipaggio sporgersi dal ponte. Furono calate le cime, fummo recuperati a bordo, e in silenzio il capitano ci fissava.
D’un tratto parlò: “Queste acque sono la dimora di Dahud. Costei era una giovane fanciulla che parecchi anni fa viveva in un’isola sotto il livello del mare, dove regnava Gradlon, re di Cornovaglia, sovrano amato e rispettato. Dahud era la figlia di Gradlon, ma di simile al padre non aveva nulla: era una fanciulla senza valori, che maltrattava la servitù e dava spettacolo con orge e bagordi ogni giorno, tanto che il popolo cominciò a mormorare che Gradlon, se non era in grado di crescere una figlia, non poteva certo essere la persona adatta a guidare un regno. Così un giorno il popolo decise di spodestarlo, e affidò il trono a un giovane marinaio straniero, che un tempo aveva amato Dahud; ma lei si divertiva solo a umiliarlo e sbeffeggiarlo, e più volte l’aveva deriso davanti agli altri ragazzi, tanto che per vergogna aveva lasciato l’isola per ritornarci solo parecchi anni più tardi in qualità di pescatore. Nell’apprendere la notizia, l’ira della fanciulla fu talmente sproporzionata che decise di punire questo irriconoscente popolo; e, impossessatasi delle chiavi della città, aprì le dighe che custodivano l’isola dalle acque dell’oceano, e lasciò che venisse sommersa. Re Gradlon, che tanto amava la figlia, cercò di mettersi in salvo con lei; ma il dio delle acque, adirato per l’accaduto, ammonì il sovrano dicendogli che sua figlia era ormai solo un’illusione, poiché il suo corpo e la sua anima erano già da tempo tempio del demonio. Così, se avesse voluto salvare la propria vita, avrebbe dovuto abbandonare la figlia al suo triste destino. Il re vide la figlia annegare, ma questo non è tutto. Colto dal rimorso e da un ineffabile dolore per l’omicidio commesso,  si racconta che l’uomo non abbia ancora trovato il riposo eterno, e vaghi alla ricerca della figlia così da poterle chiedere perdono per quanto accaduto, e poter raggiungere il regno della felicità perpetua; ma anche Dahud si dice non abbia trovato pace, e sia stata condannata dal demonio ad adescare le anime dei marinai per portarle agli inferi e accrescere il numero dei dannati.”
Il capitano si avvicinò così alla prua, e si sporse aldilà della polena.
La sirena che ci aveva ricondotto alla nave era lì, che lo fissava.
Tutti noi restavamo in silenzio.
“Salve, padre!” disse lei, e cominciò a cantare.
Liberamente ispirato alla leggenda dell’isola di Ys.
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Racconto partecipante alla quinta edizione di © Philobiblon (2010)